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La cellulite è una degenerazione infiammatoria del tessuto adiposo sottocutaneo che conferisce alla pelle il classico aspetto con protuberanze e avvallamenti dovuti all’architettura delle strutture del tessuto connettivo di sostegno. In particolate, in chi è soggetto a presentare la cellulite le fibre di collagene non sono disposte in modo incrociato ma tendono a formare una rete più parallela, che permette al tessuto adiposo di spingersi verso l'alto, in maniera non omogenea.

Questa condizione è causata dall’ingrossamento delle cellule adipose e da squilibri nel sistema circolatorio venoso e linfatico, che portano a ritenzione di liquidi e rallentamento del flusso sanguigno.

Sebbene sia frequentemente associata al sovrappeso, la cellulite può manifestarsi anche in persone normopeso.

Diversi fattori possono contribuire alla formazione della cellulite tra cui predisposizione genetica, squilibri ormonali, stati infiammatori, disfunzioni della microcircolazione e uno stile di vita sedentario.

È essenziale che il trattamento preveda l’analisi delle cause che possono aver provocato l’insorgenza o l’aggravamento di questo inestetismo e includa cambiamenti dello stile di vita.

I fattori sui quali si può agire includono:

  1. Miglioramento della circolazione: È importante evitare posture errate prolungate (come stare troppo tempo in piedi o seduti) oltre che indumenti stretti che possano costituire una compressione e quindi un ostacolo al flusso sanguigno degli arti inferiori. L'integrazione con sostanze naturali ad azione flebotropa, come la diosmina, può essere utile.
  2. Corretta idratazione: Si raccomanda di bere almeno 1,5-2 litri di acqua al giorno per mantenere un adeguato equilibrio idrico.
  3. Attività fisica: deve essere personalizzata in modo da tener conto delle problematiche individuali. Mantenere funzionale la muscolatura degli arti inferiori, in particolare a livello del polpaccio è importante anche per il contributo della pompa muscolare al ritorno venoso.
  4. Alimentazione equilibrata: E’ importante un corretto apporto di fibre, attraverso il consumo di cereali integrali, legumi oltre che di verdura e frutta, privilegiando varietà ricche di flavonoidi (ad attività antiossidante come i mirtilli e i frutti di bosco) e di vitamina C. Si consiglia di evitare gli alcolici e le bevande zuccherate. Ridurre inoltre i cibi molto ricchi di sale oltre che gli alimenti ultraprocessati. Una dieta salutare contribuisce inoltre al benessere del nostro microbiota intestinale, importante per la regolazione delle funzioni intestinali tra cui quella di barriera. In situazioni di disequilibrio può verificarsi una alterazione della permeabilità intestinale con un passaggio di tossine dall’intestino al resto dell’organismo: questo genera infiammazione che può essere causa del peggioramento di numerose problematiche tra cui la ritenzione idrica e la cellulite.
  1. Riduzione dello stress: È importante gestire lo stress, che aumenta la produzione di cortisolo e dedicare il giusto numero di ore al sonno.

Maria De Marchi, biologa nutrizionista

La biorisonanza energetica quantistica è un metodo olistico di supporto per il benessere che unisce principi della bioenergetica, della fisica quantistica e in alcuni casi della radionica, ossia di un complesso di tecniche che permettono di influire a distanza sullo stato di benessere di una persona. Questa pratica olistica, impiegata per il riequilibrio dell'energia vitale, si basa sull'idea che ogni cellula, tessuto e organo del corpo umano, così come ogni emozione, pensiero e sentimento, emettano una frequenza specifica. Attraverso queste vibrazioni avviene la comunicazione tra organi e funzioni vitali, o tra il vissuto del corpo e quello più sottile di mente ed emozioni, creando quella sinfonia che l'intero sistema della persona rappresenta. Gli squilibri, secondo questo approccio, si manifestano a livello energetico prima che nel fisico, ed è qui che la biorisonanza interviene per armonizzare e riequilibrare.

Cosa Significa Biorisonanza Energetica?

Nata dall’evoluzione delle scienze quantistiche, la biorisonanza energetica si fonda sull’osservazione delle nostre frequenze, per analizzare e correggere i disturbi del campo energetico umano. Quando un organismo è sano, le sue frequenze sono armoniche e coerenti. Tuttavia, fattori di stress, alimentazione sbilanciata, esposizioni ambientali o vissuti difficili, per citare alcuni esempi, possono interferire con queste vibrazioni naturali, causando disarmonie. Il principio della biorisonanza si concentra sull’individuare queste dissonanze e ristabilire un flusso energetico ottimale, stimolando i meccanismi naturali di autoguarigione.

Come Funziona la Tecnologia di Biorisonanza

La biorisonanza olistica utilizza un dispositivo specifico, in grado di osservare le caratteristiche dei nostri corpi sottili, ovvero della nostra energia vitale, e di inviare informazioni correttive. Con un approccio non invasivo, la tecnologia quantistica alla base del sistema rileva le frequenze anomale, interpretandole come segni di possibili squilibri. Il dispositivo quindi emette vibrazioni armoniche che stimolino la persona a ripristinare il suo equilibrio, come un diapason che fa risuonare altri diapason sulla sua stessa nota e frequenza. 

Esistono molti differenti dispositivi di biorisonanza energetica e i più avanzati offrono la possibilità di agire a distanza. Con le tecnologie attuali è infatti possibile inviare frequenze di riequilibrio senza che il soggetto sia fisicamente presente. Questo rappresenta un’opzione pratica per chi desidera beneficiare di questo strumento per il benessere anche usufruendo di sessioni online, senza doversi recare in uno studio.

Un Approccio Olistico

L’approccio olistico della biorisonanza si distingue per considerare l’individuo nel suo insieme, oltre ai sintomi o alle problematiche isolate. Ogni sessione mira a bilanciare corpo, mente e spirito, migliorando il benessere complessivo della persona. L’energia viene percepita come un flusso che, se interrotto o disarmonico, può riflettersi nel fisico. La biorisonanza si propone quindi come un metodo per ripristinare questo flusso e sostenere l’armonia tra i diversi livelli dell’essere.

Benefici della Biorisonanza Quantistica

La biorisonanza energetica offre diversi benefici per chi desidera migliorare la propria salute in maniera naturale e integrata. Tra i principali effetti positivi, si annoverano:

- Riequilibrio Energetico: Ristabilire un equilibrio naturale e una carica ottimale dell'energia vitale.

- Riduzione dello Stress: Alleviare tensioni e promuovere il rilassamento profondo.

- Riequilibrio emozionale: stimolare una maggiore armonia emotiva, favorendo un miglioramento del benessere interiore e della resilienza.

- Benessere Globale: Stimolare una sensazione di armonia e vitalità complessiva.

Questo metodo è un prezioso alleato di ogni percorso di cambiamento o di ripristino della propria armonia complessiva. Non intende sostituire trattamenti medici, e può anzi accompagnarli per supportare il percorso terapeutico attraverso un miglioramento del proprio stato di benessere. Ogni sessione di biorisonanza è unica, calibrata sulle esigenze specifiche dell’individuo.

La biorisonanza energetica quantistica rappresenta una risorsa preziosa per chi cerca un approccio al benessere che abbracci la complessità dell’essere umano. Con la sua capacità di intervenire sulla carica vitale dell'individuo e sul suo equilibrio a diversi livelli, è una tecnica tutta da sperimentare per osservarne i benefici e per mantenerli nel tempo.

Loretta Guglielmi, operatrice olistica

Con il termine amenorrea si intende quella condizione in cui il ciclo mestruale è assente nelle donne.

L’amenorrea viene definita primaria, quando il ciclo mestruale non è mai avvenuto entro i 15 anni di età, o secondaria, quando le mestruazioni sono assenti per più di 3 mesi in donne con cicli regolari o per più di 6 mesi in donne con cicli irregolari. 1

Le cause di questa condizione sono varie e possono essere generalmente raggruppate come segue: anomalie anatomiche del tratto riproduttivo, anomalie genetiche, insufficienza ovarica primaria, disturbi ipotalamici o ipofisari, altri disturbi delle ghiandole endocrine che disturbano l’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi (ipo- e iper- tiroidismo, diabete mellito, insufficienza surrenalica). 1

L’amenorrea si verifica anche in condizioni fisiologiche come in gravidanza, durante l’allattamento e in menopausa.

Inoltre anche alcuni farmaci possono indurla, come i contraccettivi orali a base progestinica, gli antipsicotici e i chemioterapici. 1

I casi più frequenti e comuni di amenorrea secondaria, oltre a quelli fisiologici, sono causati da amenorrea funzionale ipotalamica (AFI), dalla sindrome dell’ovaio policistico (PCOS), da iperprolactinemia o dall’insufficienza ovarica primaria. 1

Escludendo i casi in cui le cause sono più rare e/o di valenza medica, l’amenorrea secondaria che più risente degli aspetti dello stile di vita è l’amenorrea funzionale ipotalamica.

L’amenorrea funzionale ipotalamica (AFI) è un disturbo molto comune nelle donne che stanno vivendo una condizione di eccesivo stress energetico, fisico e/o psicologico. Per esempio può avvenire nei casi di forte calo d’introito calorico come nella malnutrizione per difetto, nell’anoressia o in altri disturbi del comportamento alimentare. Oppure in casi in cui persiste un elevato dispendio energetico da intensa attività fisica, come nelle atlete professioniste, o di forte stress psicologico, in cui elevati livelli di cortisolo diventano cronici. 2

Il cervello interpreta la scarsità energetica e lo stress come condizioni ambientali sfavorevoli per mantenere processi energeticamente dispendiosi o non essenziali per la sopravvivenza. Tra i vari processi che vengono interrotti in queste condizioni vi è il ciclo mestruale.

Il ciclo mestruale e il cervello sono direttamente collegati e comunicanti tra di loro attraverso l’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi. Normalmente l’ipotalamo, una regione cerebrale che regola i sistemi autonomi ed endocrini, manda un segnale all’ipofisi, un’importante ghiandola endocrina, di secernere ormoni specifici (l’ormone follicolostimolante, FSH e l'ormone luteinizzante, LH) che andranno a stimolare a loro volta la produzione di ormoni sessuali nelle ovaie (estrogeni, progesterone, androgeni) e quindi a regolare il ciclo mestruale. Tuttavia nei casi di forte stress, citati in precedenza, il cervello può decidere di sopprimere il primo stimolo ipotalamico e di deprimere tutto il sistema a cascata di segnalazione, bloccando così il ciclo mestruale.

Uno dei fattori scatenanti dell’arresto del ciclo mestruale è la scarsità energetica. Questa può essere dovuta a un minor apporto dietetico, a un elevato consumo energetico causato da intensa attività fisica, o a una combinazione di entrambi.

Campanelli di allarme che segnalano una carenza energetica sono il sottopeso, con un indice di massa corporea (BMI) inferiore a 18.5, e il progressivo esaurimento delle riserve energetiche sotto forma di glicogeno (le riserve di “zucchero” nel corpo) e di tessuto adiposo, in particolare quando la percentuale di massa grassa raggiunge i valori minimi raccomandati di circa il 12-15 %.

Come è facile intuire quindi, i macronutrienti che determinano un maggior impatto sul bilancio energetico sono i carboidrati e i grassi. Una loro scarsa assunzione compromette le riserve energetiche e innesca i segnali di scarsità energetica.

I carboidrati sono la risorsa energetica primaria e più immediata per l’organismo, fondamentale per ricaricare le riserve di glicogeno.

I grassi, oltre alla loro funzione energetica, sono importanti anche per la sintesi degli ormoni steroidei, famiglia di ormoni di cui fanno parte quelli sessuali. Inoltre è stato dimostrato che la capacità antinfiammatoria degli acidi grassi omega-3 può migliorare i disturbi legati al ciclo mestruale e alla fertilità.

Oltre ai macronutrienti anche la carenza di alcuni micronutrienti, in particolare la vitamina D, l’acido folico, il calcio, il magnesio e il ferro, può influenzare l’insorgenza dell’AFI.

Anche la distribuzione delle calorie durante la giornata può essere importante per un sano ritmo ormonale. Periodi di carenza energetica durante la giornata, come sessioni di intenso allenamento, possono tradursi in deficit orari di disponibilità energetica, con livelli più elevati di cortisolo e livelli inferiori di ormoni sessuali e tiroidei.

Come già menzionato, l’intensa attività fisica può incidere negativamente sulla disponibilità e le riserve energetiche. Gli sport più a rischio sono quelli in cui l'estetica e il peso corporeo rivestono un ruolo importante, per esempio il bodybuilding, la danza e la ginnastica artistica. Purtroppo anche tra gli atleti amatoriali è presente il rischio di non raggiungere livelli energetici adeguati. Questo spesso è il risultato di una sottovalutazione e dell’incapacità di programmare l’intensità e la frequenza degli allenamenti, di non saper gestire un’adeguata alimentazione e di protrarre troppo nel tempo programmi di riduzione del grasso corporeo.

Va notato che l'allenamento intenso è di per sé uno stress per l'individuo, soprattutto quando si superano le proprie capacità e si va incontro al sovrallenamento. Tuttavia, l'attività fisica regolare, se svolta correttamente, è essenziale per un corretto stile di vita.

Non solo forti stress fisici ma anche psicologici possono portare ad amenorrea secondaria. Situazioni come prolungati stati di ansia, tensione emotiva, depressione e disturbi del sonno comportano elevati livelli di cortisolo a lungo termine. La cronicità di questo stato va a perturbare l’equilibrio asse ipotalamo-ipofisi-gonadi con il conseguente arresto del ciclo mestruale. Spesso le donne più predisposte a questo fenomeno sono definite da un profilo psicologico caratterizzato da perfezionismo, una scarsa autostima, una forte pretesa verso se stesse e dagli altri, introversione, paura del giudizio e della sessualità, problemi di comunicazione, incapacità di sopportare condizioni di stress e di definire le proprie emozioni. 2

In conclusione gli aspetti che determinano l’AFI sono più di uno e dovrebbero essere affrontanti con un approccio multidisciplinare da professionisti specializzati.

Innanzitutto il primo passo dovrebbe essere quello di consultare un medico specialista in ginecologia e/o endocrinologia per ottenere una diagnosi approfondita ed escludere altre patologie. Sarà poi necessario esaminare la dieta del paziente, l'attività fisica, i livelli di stress, il sonno, le attitudini verso l'alimentazione e il profilo psicologico. A seconda dei casi si potrà agire su più fronti con: una dieta che consideri non solo un numero sufficiente di calorie e macronutrienti, ma anche vitamine e minerali e una corretta idratazione; un piano di allenamento personalizzato adatto alle proprie capacità; una consulenza psicologica volta a migliorare la gestione allo stress, il ritmo sonno veglia e il rapporto con il cibo.

Bibliografia

  1. Nawaz, G., Rogol, A. D. & Jenkins, S. M. Amenorrhea. in StatPearls (2024).
  2. Ryterska, K., Kordek, A. & Załęska, P. Has menstruation disappeared? Functional hypothalamic amenorrhea—What is this story about? Nutrients 13, 1–15 (2021).

Sabrina Giaretta, biologa nutrizionista

Il sonno è un processo biologico fondamentale per la salute dell'uomo.

Con il termine “Insonnia” si intende la difficoltà di addormentarsi, di dormire in maniera continuativa durante la notte o di dormire abbastanza a lungo.

Secondo i recenti dati ISTAT sul sonno, in Italia sono circa 13 milioni le persone che soffrono di insonnia transitoria o cronica (1 adulto su 4) di cui il 60% sono donne. Questa cifra purtroppo è raddoppiata con la pandemia Covid.

Il dato più sconcertante è che, nonostante il buon sonno sia fondamentale per il benessere di corpo e mente (basti pensare alle conseguenze devastanti sull’attenzione o sull’umore in caso di assenza di sonno), il 46% delle persone colpite non fa nulla per risolvere tale problema.

Le cause dell’insonnia possono essere le più svariate.

Alla base possono esserci cattive abitudini o problemi di salute (come la depressione) o ci possono essere problemi di origine stressogena.

Quali sono i segreti, le buone abitudini o i comportamenti da evitare per dormire meglio?

  • Addormentarsi sempre alla stessa ora in un ambiente sonno con temperature intorno ai 18 gradi, buio e senza luci o spie artificiali, possibilmente silenzioso, evitando di trascorrere le ore che precedono l'addormentamento a guardare schermi come tv, tablet, pc e cellulare che interferiscono con l’attività’ cerebrale.
  • Evitare di dormire troppo durante la giornata e limitarsi a riposi da massimo 30 minuti.
  • Curare l’aspetto alimentare evitando cene difficili da digerire, di cenare troppo tardi la sera o di consumare cibi ad alto contenuto di zuccheri (che interferiscono con il sonno).
  • Anche una scarsa attività fisica può impattare negativamente sulla qualità del nostro sonno, così come, al contrario, allenamenti troppo intensi o svolti in tardo pomeriggio o serata possono risultare una scelta decisamente sbagliata. Preferire sicuramente allenamenti in mattinata o entro le 15 assecondando così il fisiologico andamento del cortisolo e concedendosi, alla sera, attività ludiche come il ballo o una passeggiata.

In sintesi, se alla base dell’insonnia non c'è una patologia specifica conclamata, il primo fattore su cui ci si dovrebbe soffermare è proprio lo stile di vita, nel caso in cui, invece, alla base ci fossero situazioni stressogene o legate alla depressione, un aiuto psicologico può risultare una scelta fondamentale.

Fabiana Martino, Personal Trainer

La digestione è una funzione complessa esercitata dall’apparato digerente che consiste in un insieme coordinato di operazioni meccaniche e biochimiche mediante le quali le sostanze contenute negli alimenti introdotti nell’organismo vengono modificate per essere assorbite e utilizzate dall’organismo stesso.
Può capitare che per diversi motivi, come aver introdotto una quantità eccessiva di cibo, aver preso freddo durante la digestione o la presenza di allergie o intolleranze alimentari, la digestione non avvenga in modo ottimale. Si parla in questo caso di “cattiva digestione”.

I sintomi che possono accompagnarsi a una cattiva digestione sono:

  • Bruciore di stomaco
  • Reflusso acido
  • Eruttazioni
  • Mal di testa
  • Alitosi
  • Dolore
  • Gonfiore addominale
  • Nausea
  • Vomito
  • Sensazione di pesantezza
  • Meteorismo

Altri sintomi, invece, sono più generici, meno facilmente riconducibili alla difficoltà digestiva e sono:

  • Mal di testa
  • Tachicardia (provocata da reflusso gastroesofageo, che peggiora in posizione supina)

I fastidi gastrici durano circa 2-3 ore (tempo medio di completo svuotamento dello stomaco).

Questi sintomi possono essere più o meno fastidiosi durante il giorno, mentre diventano molto difficili da sopportare durante la notte (tanto che la difficoltà digestiva può ostacolare il sonno), poiché la posizione sdraiata non aiuta il deflusso del cibo e dei succhi acidi gastrici dallo stomaco verso l'intestino promuovendone, invece, il reflusso verso l'esofago. È sempre consigliabile infatti non mettersi a letto subito dopo i pasti.

La causa principale della cattiva digestione è l’alimentazione sbagliata.

Gran parte dei problemi digestivi comuni non sono legati a gravi malattie, ma dipendono essenzialmente dal fatto di mangiare troppo e male, di concentrare in un solo pasto gran parte degli alimenti assunti durante la giornata, di scegliere cibi pesanti da digerire, nonché dal fatto di mangiare in fretta invece di masticare lentamente (come si dovrebbe sempre fare) e dallo stress della vita quotidiana.

Oltre alle cattive abitudini a tavola però, ci sono altri fattori organici che possono provocare fastidi al tratto digestivo, come ad esempio:

  • Patologie gastrointestinali (gastrite, ulcera, ostruzione delle vie biliari, colon irritabile ecc)
  • Helicobacter pylori
  • Reflusso gastroesofageo
  • Uso di medicinali (antinfiammatori non steroidei)
  • Cambiamenti ormonali (gravidanza, ciclo mestruale e menopausa)
  • Intolleranze alimentari (ad esempio celiachia)
  • Abuso di alcol
  • Patologie neurologiche
  • Fasi della vita (gravidanza, menopausa)

Per escludere le diverse patologie è necessario rivolgersi a un medico specialista.

A seconda della sintomatologia complessiva e, in particolare, della presenza di "sintomi d'allarme" distintivi il medico potrà indicare l'esecuzione di:

  • esami della funzionalità epatica e pancreatica
  • ecografia addominale
  • Test finalizzato all'individuazione dell'infezione da Helicobacter pylori
  • gastroscopia
  • trattamento con farmaci
  • analisi delle feci

Rimedi

Generalmente una dieta varia, sana ed equilibrata è di aiuto contro questo disturbo, così come il mantenimento di buone abitudini alimentari (mangiare lentamente, ad esempio, riduce al minimo l’ingurgito di aria nello stomaco e permette una buona masticazione del cibo, preludio di una buona digestione).

Se alla base della cattiva digestione non c’è una patologia organica i rimedi naturali possono favorire la regressione del disturbo.

Dopo un pasto un po' troppo ricco, con sensazione di gonfiore addominale ed eruttazioni può essere utile anche succhiare caramelle alla menta, all'anice o alla liquirizia.

Un aiuto può ad esempio arrivare da tisane digestive a base di erbe (finocchio o infusi di limone e zenzero), procinetici, che promuovono il deflusso del cibo verso l'intestino ed esercitano un'azione anti-gonfiore e sali antiacidi come il bicarbonato di sodio o di calcio.

Il primo passo è sicuramente prendersi cura del benessere del proprio intestino prestando la giusta attenzione a ciò che si ingerisce: oltre a ridurre la quantità di cibo ad ogni pasto e oltre distribuire la propria dieta su pranzi e cene più leggeri e spuntini più frequenti, è di fondamentale importanza non trascurare la qualità degli alimenti che costituisce la base della propria alimentazione. Per proteggere la mucosa gastrica e non irritare ulteriormente un intestino già debilitato, è assolutamente necessario eliminare dalla propria routine alimentare alcool e bevande gassate, oltre a quelle contenenti caffeina. Parallelamente, andrebbe monitorata l’assunzione di acqua, per mantenere un buon livello di idratazione.

Ma il problema non è, ovviamente, solo nei liquidi: è bene, per la salute dell’apparato digerente, ridurre anche l’assunzione di cibi grassi e fritti, di olio e di condimenti particolarmente speziati o piccanti. È inoltre un buon consiglio mangiare almeno un paio di porzioni di pesce azzurro a settimana, preferendolo alla carne rossa o particolarmente grassa, e integrare il proprio menù con tipologie variegate di cereali, e differenti tipi di frutta e verdura di stagione. Per combattere le cattive abitudini alimentari, varietà ed equilibrio sono regole auree: non è lo “sgarro” occasionale, ma il percorso nutritivo costruito quotidianamente, poco a poco, a fare la differenza tra una digestione sana e l’accentuarsi del disturbo connesso alla dispepsia.

Contrariamente a quanto si pensa, difficilmente il completo digiuno può essere di aiuto nell’attenuare i sintomi di un intestino irritato e dolorante. Molto meglio mangiare poco, bene, lentamente. Aiutare il processo di scomposizione del cibo con una masticazione lunga e approfondita. Ciascun pasto dovrebbe avere una durata di almeno trenta minuti. Dopo mangiato, può essere utile e salutare una piccola passeggiata, meglio se all’aria aperta; questa buona abitudine è particolarmente raccomandata dopo pasti abbondanti. Al contrario, è assolutamente sconsigliato distendersi o dormire subito dopo i pasti: è bene quindi consumare la cena ad un orario non troppo tardivo, in modo da concedere all’apparato digerente il tempo necessario a concludere l’assimilazione del pasto.

Eleonora Pocchiari, biologa nutrizionista

Mindfulness viene definita da Jon Kabat-Zinn (il biologo molecolare creatore del programma Mindfulness MBSR per la riduzione dello stress e fondatore della Stress Reduction Clinic presso la University of Massachusetts Medical School) come la particolare consapevolezza che sorge dal portare attenzione intenzionalmente al momento presente in modalità non giudicante.

Come sta il mio corpo adesso? Ho qualche dolore, fastidio? Come sono seduto/a? Sono comodo/a? Sono rilassato/a? Sto provando un’emozione in particolare? Ho qualche pensiero insistente? Cosa c’è attorno a me adesso? Suoni particolari? Rumori particolari? Profumi?

Per essere “mindful”, consapevoli, occorre innanzitutto scegliere di dare attenzione al momento presente e “sentire” cosa sta accadendo in noi e attorno a noi: quali pensieri ci attraversano, quali emozioni, quali sensazioni fisiche, cercando di incontrarle per quanto possibile senza etichettarle come giuste o sbagliate, senza rifiutarle. E soprattutto accorgendosi che pensieri, sensazioni, emozioni, sono esperienze che viviamo, non ciò che siamo.

Se pensiamo alla modalità con cui normalmente ci poniamo rispetto agli eventi della vita, ci accorgiamo subito tuttavia della nostra naturale tendenza a rifiutare eventi indesiderati, a reagire agli stimoli esterni, quanto naturalmente siamo lontani dal momento presente perché persi nei pensieri del passato o nelle anticipazioni del futuro.

Le ricerche mostrano che:

  • Oltre il 90% del nostro tempo lo passiamo con il “pilota automatico”, ossia reagendo automaticamente agli eventi della vita
  • Il 95% dei pensieri che abbiamo nell’arco di una giornata, sono gli stessi del giorno precedente
  • Il 47% del tempo l’attenzione vaga lontano da ciò che stiamo facendo e, mentre vaga, tende a coltivare pensieri negativi
  • Meno di 1/3 delle persone sanno quale emozione stanno sperimentando in un determinato momento

Quest’ultimo punto dovrebbe fare riflettere anche più degli altri: se non so definire come mi sento, come posso fare scelte giuste per me?

La ricerca inoltre, raccogliendo dati in un significativo gruppo di persone, ha dimostrato che il vagare continuo dei pensieri contribuisce maggiormente ad una percezione di “infelicità”.

La nostra esperienza quotidiana ci mostra che vagare costantemente con i pensieri nel futuro o nel passato porta a sviluppare ansia o a rivivere emozioni spiacevoli, facendoci provare nuovamente sensazioni di malessere anche se l’evento ormai è passato e non si sta svolgendo nel presente.

É dunque di estrema importanza, per il nostro benessere, coltivare la capacità a restare nel momento presente, per quanto possibile.

Ed ecco che diviene importante la parola “intenzionalmente” della definizione: Mindfulness è una SCELTA, che si rinnova continuamente, con pazienza e amorevolezza.

Scelta di essere presenti alla propria vita mentre si svolge.

Non si tratta di “imparare a fare” qualcosa di “nuovo”, piuttosto di ritrovare in sé l’innata capacità ad essere consapevoli dell’esperienza che stiamo vivendo un attimo dopo l’altro.

In questo senso, Mindfulness è uno STATO dell’essere, non un “fare” qualcosa.

La capacità di essere presenti a noi stessi è già in noi, va solo riscoperta; non a caso la parola Mindfulness è fatta corrispondere alla parola SATI che in lingua Pali significa “Ricordo di sé”, inteso come incontrarsi nel momento presente, ricordarsi del fatto che siamo vivi e che stiamo vivendo un’esperienza per quanto piccola possa essere: bere un bicchiere d’acqua, accarezzare il gatto, parlare… E l’invito è di accostarci a questa esperienza con apertura e curiosità per cogliere qualche aspetto di noi e conoscerci meglio.

COME FARE?

Attraverso l’ascolto del corpo e del respiro, le uniche parti di noi che sempre sono nel presente, gradualmente si riduce la tendenza a seguire i pensieri nel passato o nel futuro, diviene più facile restare centrati in ciò che si sta facendo.

Si impara a riconoscere i propri stati d’animo, le proprie emozioni ed anche le modalità con cui vengono interpretati gli eventi, cercando per quanto possibile di rimuovere il giudizio; non si tratta di fare auto-analisi, ma semplicemente di riconoscere ciò che c’è in noi nel presente.

Non è possibile (né consigliabile) bloccare l’insorgere degli automatismi, dato che sono legati ai meccanismi di sopravvivenza, tuttavia, il fatto di portare ascolto a ciò che si sta vivendo mentre accade, fa sì che, in caso di eventi stressanti, la reazione sia meno intensa e l’organismo riesca più facilmente a recuperare il proprio equilibrio a posteriori.

La consapevolezza di ciò che si sta provando consente inoltre di scegliere: se un dato evento portava in precedenza ad una reazione sempre uguale e istantanea, ora diventa possibile scegliere un comportamento nuovo se lo si desidera; quella che nasce come reazione, diviene risposta allo stress.

Programma MBSR per Riduzione dello Stress

L’MBSR (Mindfulness-Based Stress Reduction), programma per la riduzione dello stress basato sulla Mindfulness, nasce ad opera del Dott. Jon Kabat-Zinn, biologo statunitense e fondatore nel 1979 della Clinica per la Riduzione dello Stress e successivamente del Center for Mindfulness in Medicine, Health Care and Society presso la University of Massachussetts Medical School.

Jon Kabat-Zinn, pur essendo uomo di scienza, era già all’epoca un praticante di meditazione e Hatha yoga ed ebbe l’idea di affiancare queste pratiche alle terapie mediche tradizionali.

Ed è così che l’MBSR è stato applicato inizialmente in un contesto clinico come “medicina partecipativa”, volto a educare i pazienti della Clinica per riduzione dello Stress a prendersi maggiormente cura di sé nell’attraversare i momenti delicati dell’esistenza.

L’approccio su cui si basa l’MBSR è quello della “mind-body medicine”, ossia tiene conto dell’interazione corpo-mente, di come il corpo possa influenzare la mente e viceversa, come la nostra esperienza di vita quotidiana ci mostra.

Le prime esperienze positive presso la Stress Reduction Clinic, ispirarono successivi studi scientifici e pubblicazioni; oggi abbiamo a disposizione oltre 40 anni di studi scientifici a dimostrare come il programma MBSR possa contribuire a sostenere pazienti affetti da diversi tipi di patologie e non solo.

Nel tempo infatti, il campo di applicazione si è esteso anche al di fuori dell’ambito clinico, rivolgendosi a persone non affette da patologie ma sofferenti dello stress dato dalla vita di tutti i giorni; il Center for Mindfulness stima che oltre 25.000 persone abbiano completato un percorso MBSR dal 1979 ad oggi.

BENEFICI

Tra i benefici che possono emergere ricordiamo:

  • Maggiore capacità di attraversare situazioni di stress e ansia
  • Maggiore capacità di incontrare le emozioni, riducendo la reattività
  • Educazione all’incontro e all’ascolto di sé e dell’altro
  • Migliore capacità di concentrazione e chiarezza mentale
  • Educazione al non giudizio
  • Educazione al respiro

A livello medico, alcune delle patologie per le quali gli studi hanno evidenziato possibili benefici sono:

  • Ansia
  • Depressione
  • Dolore Cronico
  • Fibromialgia
  • Disturbi gastrointestinali
  • Disturbi cardiaci
  • Malattie della pelle (es psoriasi)
  • Ipertensione
  • Disturbi del sonno
  • Stress

È fondamentale tuttavia ricordare che il programma MBSR non è in alcun modo una terapia, ma può essere affiancato alle eventuali terapie mediche in corso. Va anche ricordato che eventuali benefici possono manifestarsi solo accostandosi alla pratica con pazienza, giorno dopo giorno, secondo i suggerimenti forniti settimanalmente, poiché la pratica di mindfulness non è un atto magico, è piantare nuovi semi ed accudirli quotidianamente affinché crescano e possano portare frutti.

Elisabetta Forlani, operatrice olistica

L’Accademia Americana di Allergia ed Immunologia ha stabilito di usare come termine che comprenda ogni tipologia di reazione avversa al cibo: intolleranza alimentare. Sono, infatti, disturbi vari e di varia natura, associati alle reazioni del nostro intestino all’ingestione di un dato alimento. Dolori addominali, bruciori di stomaco, crampi intestinali e a volte anche solo gonfiore o mal di testa sono i sintomi che si avvertono con la presenza, nella nostra dieta, di uno o più alimenti a cui siamo intolleranti. A volte può anche capitare che non ci si accorga di avere un’intolleranza o non si attribuisca ad un cibo un determinato malore poiché le intolleranze non creano risposte aggressive come le allergie alimentari dato che la loro natura è di gran lunga differente. Le intolleranze alimentari spaziano dalla mancanza di enzimi per metabolizzare un alimento, alla risposta anomala del nostro sistema immunitario ad un cibo.

Si può essere intolleranti se la presenza di istamina è alta come in alcuni pesci, si può essere intolleranti ai solfiti nel vino o alla tiramina dei formaggi stagionati o semplicemente e molto comunemente al Nichel o al lattosio. Nelle allergie alimentari il nostro sistema immunitario accende una reazione dopo aver consumato un cibo, questo da quel momento diventa vietato per sempre nella nostra alimentazione poiché si formano immunoglobuline che producono e produrranno sempre una risposta allergica: dolore, nausea, vomito, crisi respiratorie, orticaria, rush cutanei fino alla forma più grave e potenzialmente letale che è l’anafilassi. Per le intolleranze alimentari non è così ed è per questo che è molto difficile definire mediante analisi la presenza o meno di una determinata intolleranza.

Le intolleranze possono essere associate alla quantità di un elemento la cui quantità soglia accettata determina la reazione avversa e invece piccole quantità dello stesso cibo, ingerite, non danno alcuna reazione.

Intolleranza al lattosio: è un deficit della traduzione dell’enzima LATTASI che viene prodotto nell’intestino ed è deputato a scindere il lattosio in Galattosio e Glucosio in modo che i due zuccheri possano essere assorbiti. La mancata trascrizione genica per la lattasi può essere totale e primaria se la mucosa intestinale dell’individuo è stata danneggiata oppure secondaria se, cioè, va diminuendo con l’età. Minore è la quantità di latticini consumata nel tempo, maggiore sarà la produzione e la presenza di lattasi, ma se si consuma una grande quantità in periodi ravvicinati, si hanno le conseguenze della non digeribilità della molecola intera di lattosio: gonfiore, dolore, meteorismo, stitichezza o diarrea. Se invece una persona è allergica al latte, la situazione è completamente diversa poiché assisteremo alla produzione di IgE per le caseine o le lattoalbumine. Per la diagnosi si può fare un Breath test ma anche un test per il gene della lattasi per capire se c’è la probabilità che la sua espressione sia cambiata o cambierà nel tempo.

Celiachia: è un’infiammazione cronica dell’intestino che si sviluppa in individui geneticamente predisposti, a causa del consumo di GLIDINA una parte del glutine che si trova nel grano, nell’orzo e nella segale. La reazione all’ingestione di glutine è autoimmune, non può essere modulata dalle cellule dell’intestino che perde totalmente i villi finendo in atrofia e perdendo la capacità di assorbire i nutrienti. I sintomi classici, non uguali per tutti sono diarrea, dolori addominali, dimagrimento o comunque non accrescimento ponderale. Può esserci stanchezza cronica, anemia, osteoporosi precoce, transaminasi alte, dolori articolari. Purtroppo, tutto ciò è associato ad un aumento di sintomi dovuti allo sviluppo di altre malattie autoimmuni. La diagnosi di celiachia avviene mediante riscontro analitico di anticorpi anti- Trasglutaminasi (Anti-tTG) della classe IgA e successivamente con biopsia dei villi del duodeno. Chi risulta non celiaco agli esami di ricerca di diagnosi, potrebbe essere invece intollerante al glutine ma non celiaco ma questa diagnosi è molto più complicata da ottenere. Le intolleranze alimentari possono essere riconosciute e trattate da medici gastroenterologi ma anche da Biologi nutrizionisti. Il nutrizionista può inizialmente trattare il paziente con intolleranza con una dieta a basso contenuto dei cibi poco tollerati, controllare insieme all’utente la reazione in fase analitica e quantificare il danno che produce il consumo di questi alimenti e definire un percorso di ridefinizione del microbioma intestinale in assenza dell’alimento e poi una lenta e graduale reintroduzione nella dieta dell’alimento stesso.

Questo, purtroppo, non è possibile con gli utenti celiaci che dovranno semplicemente condurre una vita senza glutine. Ormai è comunque presente, sul mercato, una quantità di prodotti di sostituzione abbastanza vasta. In questo periodo di ricerche scientifiche fitte e continue, i riscontri tra alimentazione sana, benessere e vita felice sono sempre di più a portata di mano.

Claudia Buonofiglio, biologa nutrizionista

La parola trauma deriva dal greco τραũμα che significa ferita. Viviamo un trauma psichico quando siamo esposti ad uno stimolo minaccioso ed improvviso a cui non possiamo reagire né sottrarci, che sovrasta la nostra capacità di farvi fronte emotivamente, provocandoci un profondo senso di impotenza, di intensa paura ed orrore. Una ferita che può travolgerci per i suoi effetti e le sue conseguenze e può impedirci di continuare a vivere come prima. Non tutti reagiamo agli stessi eventi nello stesso modo ed anche la nostra reazione soggettiva può variare nell’arco della nostra vita. Quando viviamo un’esperienza traumatica è il nostro sistema di sopravvivenza a prendere il sopravvento e questo accade in modo automatico e fuori dal nostro controllo. Per questo motivo ci può capitare di pensare di aver reagito in modo insensato ed irriconoscibile rispetto al nostro solito modo di essere.

Il trauma può essere definito come «un fattore traumatico estremo che implica l'esperienza personale diretta di un evento che causa o può comportare morte o lesioni gravi, o altre minacce all'integrità fisica. Se facciamo riferimento alla sfera sessuale il concetto di trauma si riferisce ad abuso e molestie sessuali che sono definibili come tentativi di contatto sessuale ed effettivi contatti sessuali in mancanza di consenso da parte della persona che li subisce, compresi i casi in cui tale consenso non possa essere espresso a causa di alcol e droghe, situazioni di incoscienza, sbilanciamento di potere o età della vittima. Sebbene lo stupro sia forse la sua forma più conosciuta, rientrano nella categoria di abuso sessuale anche il causare deliberatamente dolore al partner durante il rapporto, utilizzare pratiche umilianti senza il suo consenso, contagiare intenzionalmente il partner con malattie sessualmente trasmissibili e, in generale, sfruttare la persona dal punto di vista sessuale, ad esempio costringendola a prostituirsi o ad apparire in materiale pornografico; nei bambini, sono da considerarsi traumatiche tutte quelle esperienze caratterizzate da richieste e attività sessuali inappropriate e indesiderate rispetto al livello di sviluppo, dall’esposizione a materiale pornografico al contatto con i genitali (toccare o palpeggiare), alla penetrazione orale, anale o al rapporto sessuale tramite penetrazione vaginale completa o al tentato rapporto sessuale. L’abuso include rapporti sessuali e/o comportamenti che prevedono toccamenti sessuali del minore, molestie senza toccamento e utilizzo del minore a scopo sessuale. A volte può non esserci nessun contatto fisico e l’abuso può avvenire online, tramite chat e/o webcam. La definizione legale considera abuso su minore ogni atto di una persona (adulto o altro minore) che con la forza, la coercizione o le minacce costringa un minore ad avere qualsiasi forma di contatto sessuale o di attività sessuale.

È noto che il trauma attivi meccanismi psicologici arcaici di difesa dalle minacce ambientali (in un primo momento immobilità tonica o freezing e successivamente immobilità cataplettica dopo le reazioni di attacco-fuga) provocando il distacco dall’usuale esperienza di sé e del mondo esterno e conseguenti sintomi dissociativi. Tale distacco sembra implicare una sospensione immediata delle normali funzioni riflessive e metacognitive; si verifica quindi una dis-integrazione della memoria dell’evento traumatico rispetto al flusso continuo dell’autocoscienza e della costruzione di significati. Da questa esperienza deriva la molteplicità non integrata degli stati dell’io che caratterizza la dissociazione patologica. Si possono distinguere due differenti tipi di sintomi dissociativi: i fenomeni di distacco e quelli di compartimentalizzazione. I primi corrispondono alle esperienze di distacco da sé e dalla realtà (alienazione) e consistono nei sintomi come la depersonalizzazione, la derealizzazione, l’anestesia emotiva transitoria, il déjà vu, le esperienze di autoscopia tipicamente attivate da emozioni dirompenti provocate da esperienze minacciose ed estreme. I secondi emergono invece dalla compartimentazione di funzioni normalmente integrate come la memoria, l’identità, lo schema e l’immagine corporea, il controllo delle emozioni e dei movimenti volontari e corrispondono a sintomi come le amnesie dissociative, l’emersione delle memorie traumatiche, la dissociazione somatoforme, l’alterazione del controllo delle emozioni e dell’unità dell’identità. I sintomi da compartimentazione, diversamente da quelli di distacco, che possono essere esperiti da chiunque in situazioni estreme, sono tipicamente conseguenze dello sviluppo traumatico e sembrano alterare la struttura stessa della personalità dell’individuo.

La ricerca psicologica teorico-clinico ha dimostrato come la dis-integrazione delle funzioni psichiche correlata al trauma, provochi con frequenza disturbi somatoformi quali dismorfismi, somatizzazioni, sintomi pseudo-neurologici, sindromi dolorose in assenza di lesioni organiche, disfunzioni sessuali; vi sono inoltre elementi comuni tra dissociazione e deficit di mentalizzazione. Le capacità metacognitive sarebbero estremamente sensibili sia all’effetto dirompente delle emozioni che ne alterano la normale operatività, sia alle esperienze traumatiche infantili che ne compromettono lo sviluppo.

I traumi vissuti durante l’infanzia e/o l’adolescenza hanno ripercussioni negative sulla vita delle persone che li hanno sperimentati. La sfera della sessualità ne è un esempio emblematico, infatti accade spesso che un individuo con una storia di abusi sessuali infantili alle spalle sviluppi nell’età adulta una disfunzione sessuale e/o un’insoddisfazione sessuale. Queste disfunzioni sessuali, derivate dal trauma, condizionano il funzionamento e impattano negativamente sulla salute e sul benessere psichico dell’individuo e della coppia. In generale si parla di disfunzione sessuale quando il soggetto subisce una significativa riduzione del desiderio e dell’eccitazione. Questa condizione di per sé non basta per parlare di una vera e propria disfunzione sessuale. Il disturbo, per essere definito tale, deve manifestarsi in maniera frequente per un periodo di almeno 6 mesi, deve essere sperimentato dal soggetto in almeno il 75% dei rapporti sessuali e causare un forte “stress psicologico”. La correlazione tra disfunzioni sessuali e trauma sessuale è da tempo studiata e approfondita in diverse ricerche scientifiche. Una di esse evidenzia che l’87% di donne sopravvissute ad aggressioni sessuali al college hanno riportato problemi di disfunzione sessuale come difficoltà a raggiungere l’orgasmodiminuzione del desiderio e/o interesse sessuale. Le vittime di abuso vivono in un costante stato di iper-vigilanza, che si esprime attraverso flashback o ricordi collegati direttamente all’abuso subito. A volte è sufficiente anche solo un contatto fisico con il partner per innescare pensieri, sensazioni fisiologiche ed emozioni involontarie come vergogna, senso di colpa e disgusto che provocano profonda sofferenza. Anche negli uomini la situazione non è diversa, il trauma da abuso sessuale può portare a disfunzioni sessuali come un desiderio sessuale ipo-attivo, problemi di eccitazione, difficoltà a raggiungere l’orgasmo e dolore durante l’atto. I problemi psicologici correlati sono principalmente ansia, depressione e attacchi di panico. Sia nelle donne che negli uomini l’abuso sessuale agisce come un fattore di “rivolta” nel processo di strutturazione dell’equilibrio psicoaffettivo dell’individuo e provoca profondi danni nella sfera sessuale e intima della vittima.  Il corpo purtroppo “accusa il colpo” e memorizza l’abuso subito in ogni situazione considerata dall’individuo un trigger.

I traumi legati alla sfera sessuale posso portare ad importanti conseguenze psicopatologiche. La natura sessuale dell’evento traumatico gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo non solo del Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD) ma anche di altri disturbi, come quelli sessuali, depressione maggiore, disturbi del comportamento alimentare ed in misura minore disturbi d’ansia diversi dal PTSD. La forte sofferenza emotiva e fisica provata durante un’esperienza traumatica può successivamente dar vita al Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD) che è definito secondo alcuni criteri peculiari, tra i quali ricordiamo l’esposizione a una situazione di forte minaccia alla vita o all’integrità fisica (questo comprende anche la dimensione sessuale) per se stessi o altri, la possibile comparsa di pensieri intrusivi o dissociazioni, l’impossibilità a provare emozioni positive, sintomi di evitamento (sia a livello cognitivo che comportamentale), irritabilità, difficoltà di concentrazione o ipervigilanza. I sintomi maggiormente manifestati dalle vittime di sesso femminile (con anamnesi negativa per violenza sessuale durante l’infanzia) sarebbero, in ordine di frequenza: assenza di desiderio sessuale, depressione del tono dell’umore, ripugnanza per il sesso, ricordi spiacevoli e intrusivi dell’evento, dolore genitale, incubi, disagio alla riesposizione, senso di colpa, abbuffate con condotte di eliminazione. La negazione e l’evitamento, legati all’interferenza con la corretta integrazione dell’evento traumatico nella memoria a causa di eventi dissociativi, conducono spesso all’isolamento, favorendo l’insorgenza di sintomatologia depressiva. La rivittimizzazione sembra, invece, un fattore maggiormente invalidante: traumi ripetuti ridurrebbero la capacità del soggetto di reagire ad un insulto successivo. Le modificazioni psichiche determinate dall’abuso darebbero luogo ad una serie di conseguenze tali da rendere la persona più esposta a ulteriori abusi, ulteriori traumi e quindi porterebbero ad un aggravamento del PTSD conseguente e della salute psicofisica in generale. Un altro aspetto importante è rappresentato dalle conseguenze funzionali sulla salute sessuale e genitale della donna. L’aggressione a sfondo sessuale sembra essere correlata a una maggiore incidenza di dismenorrea, irregolarità mestruali, dispareunia, menorragia, amenorrea per almeno due cicli e perdita di piacere. Le donne vittime di stupro presentano tassi doppi di disturbi riproduttivi o sessuali. L’abuso di alcol risulta essere la più frequente associazione in caso di PTSD, con importanti evidenze che l’esordio dell’abuso insorga successivamente al PTSD. L’alcol aumenta il rischio di rivittimizzazione per molteplici motivi: disturba i meccanismi autoprotettivi e le capacità di problem solving rendendo la donna più vulnerabile a eventuali aggressori, inoltre modifica l’impressione suscitata sull’uomo, che la percepisce come sessualmente più disponibile. Analoga funzione potrebbe essere attribuita all’abuso di altre sostanze. La teoria ad oggi più accreditata è, però, quella dell’auto-medicazione; l’alcol verrebbe usato per fronteggiare gli stati affettivi spiacevoli e dolorosi.

Le vittime di sesso maschile sembrano avere maggiori reazioni di rabbia, ostilità e depressione rispetto alle donne. In alcuni casi questi meccanismi possono sfociare in etero-aggressività oppure rabbia o fantasie di vendetta nei confronti dell’aggressore o della società. In alternativa, molti uomini adottano atteggiamenti controllati, quali accettazione sottomessa, minimizzazione o rifiuto. Queste modalità possono rendere l’uomo predisposto a sequele psicologiche a lungo termine poiché l’atteggiamento sopra riportato rende più improbabile la ricerca di aiuto e più difficoltosa la metabolizzazione del trauma. Le conseguenze psicologiche più spesso evidenziate sono l’aumentato senso di vulnerabilità o cambi drastici dello stile di vita, mutamenti della percezione che le vittime hanno di sé o ridotta mascolinità e auto-colpevolizzazione, considerata il fattore peggiore nel recupero di uno stato di salute.

Mentre gli effetti a breve termine del trauma sessuale sono, anche se retrospettivamente, facilmente inquadrabili in un Disturbo Post-Traumatico da Stress, gli effetti a lungo termine includono sintomi come depressione dell’umore, ansia, abuso di sostanze, somatizzazioni ed alterazioni del comportamento alimentare. È possibile, inoltre, che l’abuso sessuale possa essere una causa traumatica slatentizzante una patologia psichica preesistente o una conseguenza della patologia stessa. Queste considerazioni trovano conferma anche nella letteratura scientifica più recente che evidenzia l’alta incidenza di abuso sessuale in pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare ed in pazienti con Disturbo da Abuso di Sostanze.

La Terapia Cognitivo Comportamentale (TCC) centrata sul trauma aiuta i pazienti ad identificare e modificare i pattern distorti di pensiero riguardanti se stessi, l’evento traumatico ed il mondo, insegnando, inoltre, a gestire l’ansia e le emozioni negative, allo scopo di ridurre i sintomi persistenti di iper-arousal che presentano le persone che hanno subito un trauma. I protocolli di TCC centrati sul trauma enfatizzano in maniera particolare gli interventi di esposizione. L’esposizione effettuata su persone che hanno subìto un trauma si basa su due principi: abituazione (ossia la riduzione dell’ansia dopo una esposizione prolungata) e processamento dell’informazione (che consente la ri-valutazione della vecchia informazione e l’incorporazione di una nuova, alternativa e funzionale nella memoria del trauma). L’esposizione può essere effettuata in vivo (nelle situazioni della vita reale) oppure in forma immaginativa allo scopo di agire sulle risposte emotive e fisiologiche elicitate in presenza degli stimoli temuti, sia interni che esterni. I benefici terapeutici ottenuti con la TCC sono dovuti, principalmente, all’attivazione dei network della paura durante i protocolli di esposizione prolungata. È stato suggerito, infatti, che la rielaborazione dell’esperienza traumatica richieda un’attivazione prolungata delle rappresentazioni mentali associate al ricordo traumatico, per consentire l’abituazione all’ansia ed il cambiamento delle credenze associate al trauma. Ciò risulta coerente con l’osservazione che i sintomi del PTSD sono dovuti anche a un deficit di accesso alle memorie traumatiche.

Durante l’esposizione prolungata al paziente viene chiesto di:

  1. raccontare più volte, in maniera dettagliata, l’evento traumatico fino a quando la risposta emotiva diminuisce;
  2. affrontare, gradualmente, situazioni sicure che, tuttavia, generano la paura associata ai ricordi del trauma.

L’esposizione viene utilizzata per accrescere il processamento emotivo degli eventi traumatici, aiutando i pazienti ad affrontare le memorie traumatiche e le situazioni associate ad esse. I pazienti, infatti, imparano che possono ricordare “in sicurezza” e tollerare la sofferenza evocata, poiché essa decresce nel tempo. Il focus dell’esposizione prolungata può essere un singolo evento o più eventi traumatici (scelti in base alle caratteristiche individuali e alla storia del paziente). Il terapeuta, inoltre, deve sempre ricordare al paziente che l’evitamento riduce l’ansia a breve termine ma mantiene e alimenta la paura, impedendo l’acquisizione di una nuova consapevolezza, cioè che le situazioni che provocano sofferenza e/o le memorie traumatiche non sono pericolose di per sé. È stata dimostrata l’efficacia dei protocolli di TCC nel trattamento del PTSD in vittime con storia di abuso sessuale, suffragando l’ipotesi che tale trattamento produca una significativa riduzione del pattern sintomatologico anche in persone con storie traumatiche complesse. La TCC centrata sul trauma, inoltre, ha prodotto degli effetti comparabili a quelli ottenuti con l’utilizzo della tecnica EMDR.

Gian Luca Cesa, psicologo e psicoterapeuta

L’alimentazione riveste un ruolo cruciale nella salute e nella qualità di vita degli anziani poiché, l’invecchiamento, comporta cambiamenti fisiologici e metabolici che influenzano l’assunzione e l’assorbimento dei nutrienti, portando a carenze nutrizionali (in particolar modo di vit D, vit B12, calcio e proteine) e a un maggior rischio di malnutrizione.

Modificazioni fisiologiche comuni dell’invecchiamento sono: la perdita di massa muscolare (sarcopenia), che può portare a debolezza e ad un aumentato rischio di cadute; la riduzione della densità ossea (osteopenia/osteoporosi), che può aumentare la fragilità ossea e il rischio di fratture; la riduzione del metabolismo basale e, di contro, un aumentato fabbisogno di nutrienti specifici, come vitamine e minerali; un’alterazione della digestione e dell’assorbimento di nutrienti chiave, come vitamina B12, calcio, e ferro; un’alterazione del gusto e dell’appetito, influenzato anche dall’assunzione di farmaci che possono modificare le preferenze alimentari; delle problematiche dentali e masticatorie, che possono ostacolare l’assunzione di alimenti solidi, riducendo la varietà dell’alimentazione.

Nell’anziano una corretta alimentazione, basata sui criteri cardine della dieta mediterranea, è un importante fattore di salute, longevità e qualità di vita.

Gli anziani hanno specifici fabbisogni nutrizionali che devono essere considerati quali:

  1. Un adeguato apporto proteico: 1.2g di proteine per kg di peso corporeo, indispensabile per contrastare la sarcopenia. Preferire fonti proteiche facilmente digeribili come pesce, uova, carni bianche, legumi e prodotti caseari e, in caso di difficoltà masticatorie, frullare o tritare i cibi per facilitarne l’assunzione.
  2. Un adeguato apporto di vitamine e minerali: calcio (1.200mg al giorno) e vit D (800-1000 IU) per ridurre il rischio di osteoporosi; valutare anche l’integrazione con alimenti fortificati e integratori per l’apporto di vitamina B12 e del ferro.
  3. Un adeguato apporto di fibre: utile per prevenire la stitichezza e migliorare la funzionalità intestinale.
  4. Un adeguata assunzione di grassi sani: privilegiare i grassi insaturi, come quelli contenuti nell’olio d’oliva e negli oli di semi, e aumentare il consumo di pesce ricco di omega-3 (come salmone, sgombro, aringhe, acciughe, tonno, sardine e trota)
  5. Limitare gli zuccheri e i grassi saturi: per evitare il sovrappeso e il rischio cardiovascolare.
  6. Idratazione costante: gli anziani spesso non percepiscono correttamente lo stimolo della sete. È fondamentale incentivare l’assunzione regolare di liquidi (acqua, tisane, brodi) per prevenire la disidratazione.

In conclusione, garantire una corretta e adeguata alimentazione nell’anziano è di fondamentale importanza per soddisfare i fabbisogni nutrizionali, considerando le specifiche limitazioni individuali. 

Un approccio alimentare appropriato risulta essenziale per migliorare significativamente la qualità della vita, prevenire l’insorgenza di patologie e promuovere un generale stato di benessere ed energia.

Anita Polignino, biologa nutrizionista

I disturbi del comportamento alimentare (DCA) sono problematiche che riguardano il modo in cui una persona si relaziona con il cibo e il proprio corpo, e possono avere effetti molto seri sulla salute fisica e mentale. Questi disturbi sono più comuni di quanto si pensi e colpiscono persone di tutte le età, ma spesso iniziano durante l’adolescenza o la prima età adulta.

I disturbi del comportamento alimentare si manifestano quando una persona sviluppa un rapporto malsano con il cibo, il peso e il proprio corpo. Questo può significare che qualcuno mangia troppo poco, troppo, o si preoccupa eccessivamente del proprio aspetto fisico. Non si tratta solo di cattive abitudini alimentari, ma di una vera e propria malattia che può compromettere la salute in modo serio e duraturo.

Chi soffre di un DCA può avere una visione distorta del proprio corpo, vedendosi ad esempio molto più grasso di quanto sia in realtà, e questa percezione errata può portare a comportamenti estremi per controllare il peso, come il digiuno o l’abuso di esercizio fisico.

I sintomi dei disturbi alimentari possono essere fisici, psicologici ed emotivi. A livello fisico, si possono notare grandi cambiamenti nel peso, problemi di digestione, perdita di capelli, debolezza muscolare e stanchezza cronica. A livello psicologico, invece, chi soffre di un DCA potrebbe isolarsi, essere ossessionato dal cibo o dal peso, sentirsi sempre triste o arrabbiato, oppure manifestare ansia e depressione.

Alcuni comportamenti tipici includono saltare i pasti, mangiare di nascosto, o adottare rituali rigidi nel preparare il cibo. Molti dei sintomi, come gli sbalzi d’umore o la paura di perdere il controllo, sono molto simili a quelli che si vedono nelle dipendenze.

Le cause dei disturbi alimentari sono spesso complesse e possono variare da persona a persona. Alcuni fattori che possono contribuire includono:

  • Psicologici: difficoltà emotive, traumi passati, bullismo o esperienze di stress.
  • Sociali e culturali: pressioni per essere magri o aderire a standard di bellezza irrealistici diffusi dai media.
  • Genetici: alcune ricerche indicano che potrebbe esserci una componente ereditaria in alcuni disturbi come l’anoressia.

Esistono diversi tipi di DCA, e i più comuni sono:

  • Anoressia nervosa: caratterizzata da una forte paura di ingrassare, anche quando si è sottopeso, e da comportamenti che riducono drasticamente l’assunzione di cibo.
  • Bulimia nervosa: chi soffre di bulimia alterna abbuffate a episodi di comportamenti “compensatori” come il vomito autoindotto o l’uso eccessivo di lassativi per eliminare le calorie ingerite.
  • Binge eating disorder: simile alla bulimia, ma senza i comportamenti compensatori. Le persone mangiano grandi quantità di cibo in poco tempo e poi si sentono in colpa o provano vergogna.

Le conseguenze dei disturbi alimentari possono essere devastanti, sia fisicamente che mentalmente. Chi soffre di anoressia, ad esempio, può avere seri problemi cardiaci, ossei e muscolari a causa della mancanza di nutrienti. Anche la bulimia può provocare gravi danni, soprattutto a livello gastrointestinale e dentale, a causa del vomito frequente.

Dal punto di vista psicologico, queste malattie possono portare a un isolamento sociale, bassa autostima, depressione e, nei casi più gravi, persino al suicidio.

Se pensi di avere un disturbo alimentare o conosci qualcuno che potrebbe soffrirne, è importante cercare aiuto. I disturbi alimentari raramente migliorano da soli e, anzi, spesso peggiorano senza un trattamento adeguato.

La cura di un DCA richiede l’intervento di più professionisti, come psicologi, nutrizionisti e medici, che lavorano insieme per aiutare la persona a guarire. Le terapie più efficaci includono la terapia cognitivo-comportamentale, che aiuta a cambiare i pensieri e i comportamenti dannosi legati al cibo, e la terapia familiare, che coinvolge anche i familiari nel processo di guarigione.

In conclusione, i disturbi del comportamento alimentare sono malattie complesse ma curabili. Riconoscere i sintomi e cercare aiuto è il primo passo verso la guarigione. Se tu o una persona cara vi trovate a lottare con il cibo o con il vostro corpo, non esitate a parlare con uno specialista: la salute fisica e mentale dipende da un aiuto tempestivo.

Dominga Marfisi, psicologa e psicoterapeuta

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