L’alimentazione riveste un ruolo cruciale nella salute e nella qualità di vita degli anziani poiché, l’invecchiamento, comporta cambiamenti fisiologici e metabolici che influenzano l’assunzione e l’assorbimento dei nutrienti, portando a carenze nutrizionali (in particolar modo di vit D, vit B12, calcio e proteine) e a un maggior rischio di malnutrizione.
Modificazioni fisiologiche comuni dell’invecchiamento sono: la perdita di massa muscolare (sarcopenia), che può portare a debolezza e ad un aumentato rischio di cadute; la riduzione della densità ossea (osteopenia/osteoporosi), che può aumentare la fragilità ossea e il rischio di fratture; la riduzione del metabolismo basale e, di contro, un aumentato fabbisogno di nutrienti specifici, come vitamine e minerali; un’alterazione della digestione e dell’assorbimento di nutrienti chiave, come vitamina B12, calcio, e ferro; un’alterazione del gusto e dell’appetito, influenzato anche dall’assunzione di farmaci che possono modificare le preferenze alimentari; delle problematiche dentali e masticatorie, che possono ostacolare l’assunzione di alimenti solidi, riducendo la varietà dell’alimentazione.
Nell’anziano una corretta alimentazione, basata sui criteri cardine della dieta mediterranea, è un importante fattore di salute, longevità e qualità di vita.
Gli anziani hanno specifici fabbisogni nutrizionali che devono essere considerati quali:
In conclusione, garantire una corretta e adeguata alimentazione nell’anziano è di fondamentale importanza per soddisfare i fabbisogni nutrizionali, considerando le specifiche limitazioni individuali.
Un approccio alimentare appropriato risulta essenziale per migliorare significativamente la qualità della vita, prevenire l’insorgenza di patologie e promuovere un generale stato di benessere ed energia.
Anita Polignino, biologa nutrizionista
I disturbi del comportamento alimentare (DCA) sono problematiche che riguardano il modo in cui una persona si relaziona con il cibo e il proprio corpo, e possono avere effetti molto seri sulla salute fisica e mentale. Questi disturbi sono più comuni di quanto si pensi e colpiscono persone di tutte le età, ma spesso iniziano durante l’adolescenza o la prima età adulta.
I disturbi del comportamento alimentare si manifestano quando una persona sviluppa un rapporto malsano con il cibo, il peso e il proprio corpo. Questo può significare che qualcuno mangia troppo poco, troppo, o si preoccupa eccessivamente del proprio aspetto fisico. Non si tratta solo di cattive abitudini alimentari, ma di una vera e propria malattia che può compromettere la salute in modo serio e duraturo.
Chi soffre di un DCA può avere una visione distorta del proprio corpo, vedendosi ad esempio molto più grasso di quanto sia in realtà, e questa percezione errata può portare a comportamenti estremi per controllare il peso, come il digiuno o l’abuso di esercizio fisico.
I sintomi dei disturbi alimentari possono essere fisici, psicologici ed emotivi. A livello fisico, si possono notare grandi cambiamenti nel peso, problemi di digestione, perdita di capelli, debolezza muscolare e stanchezza cronica. A livello psicologico, invece, chi soffre di un DCA potrebbe isolarsi, essere ossessionato dal cibo o dal peso, sentirsi sempre triste o arrabbiato, oppure manifestare ansia e depressione.
Alcuni comportamenti tipici includono saltare i pasti, mangiare di nascosto, o adottare rituali rigidi nel preparare il cibo. Molti dei sintomi, come gli sbalzi d’umore o la paura di perdere il controllo, sono molto simili a quelli che si vedono nelle dipendenze.
Le cause dei disturbi alimentari sono spesso complesse e possono variare da persona a persona. Alcuni fattori che possono contribuire includono:
Esistono diversi tipi di DCA, e i più comuni sono:
Le conseguenze dei disturbi alimentari possono essere devastanti, sia fisicamente che mentalmente. Chi soffre di anoressia, ad esempio, può avere seri problemi cardiaci, ossei e muscolari a causa della mancanza di nutrienti. Anche la bulimia può provocare gravi danni, soprattutto a livello gastrointestinale e dentale, a causa del vomito frequente.
Dal punto di vista psicologico, queste malattie possono portare a un isolamento sociale, bassa autostima, depressione e, nei casi più gravi, persino al suicidio.
Se pensi di avere un disturbo alimentare o conosci qualcuno che potrebbe soffrirne, è importante cercare aiuto. I disturbi alimentari raramente migliorano da soli e, anzi, spesso peggiorano senza un trattamento adeguato.
La cura di un DCA richiede l’intervento di più professionisti, come psicologi, nutrizionisti e medici, che lavorano insieme per aiutare la persona a guarire. Le terapie più efficaci includono la terapia cognitivo-comportamentale, che aiuta a cambiare i pensieri e i comportamenti dannosi legati al cibo, e la terapia familiare, che coinvolge anche i familiari nel processo di guarigione.
In conclusione, i disturbi del comportamento alimentare sono malattie complesse ma curabili. Riconoscere i sintomi e cercare aiuto è il primo passo verso la guarigione. Se tu o una persona cara vi trovate a lottare con il cibo o con il vostro corpo, non esitate a parlare con uno specialista: la salute fisica e mentale dipende da un aiuto tempestivo.
Dominga Marfisi, psicologa e psicoterapeuta
La stanchezza è quasi sempre il frutto di sforzi fisici e mentali non correttamente compensati con un corretto recupero, anche in termini di ore e qualità del sonno.
L’alimentazione può giocare un ruolo chiave nella regolazione del sonno, da un lato lavorando su qualità e timing dei pasti, dall’altro su possibile integrazione.
Il primo aspetto fondamentale da considerare è l’apporto calorico giornaliero. Se questo è troppo basso o troppo alto, infatti, può disturbare la qualità del sonno.
I carboidrati giocano poi un ruolo fondamentale nella relazione cibo-sonno. In generale una dieta ricca in carboidrati aumenta sia la durata che la proporzione del sonno profondo. Inoltre, un loro consumo sembra aumentare i livelli plasmatici di triptofano, un aminoacido essenziale precursore della serotonina, a partire dalla quale viene sintetizzata poi la melatonina. In particolare, sembrano essere d’aiuto alimenti ad alto indice glicemico (IG), che devono però essere consumati poco più di un’ora prima di andare a letto.
Anche una dieta con un medio alto apporto in proteine sembra essere d’aiuto per migliorare la qualità del sonno. Quelle ricche in triptofano risultano le migliori in questo senso per i motivi appena visti, e includono latte, tacchino, pollo, pesce, uova, fagioli, arachidi e verdure a foglia verde, tutti alimenti che devono essere presenti nella dieta di un atleta.
Al contrario, invece, una dieta ricca di grassi influenza negativamente il tempo di sonno totale, così come l’assunzione di alcol che, nonostante favorisca l’addormentamento, peggiora sensibilmente la qualità del sonno totale.
Per quanto riguarda invece alimenti di consumo meno frequente un cenno va sicuramente fatto a tè e caffè per il contenuto di caffeina. Questa infatti è diretta antagonista dell’adenosina e blocca di fatto la sua azione sedativa sul sistema nervoso centrale. Quando la caffeina è in circolo, quindi, antagonizza tra il 25 e il 50% dei recettori dell’adenosina, ma ha due problematiche: ha un’emivita di 4-5h e inoltre, mentre agisce, l’adenosina continua ad accumularsi nell’organismo, portando a quello che viene definito caffeine crash al termine della sua emivita. Il consiglio in questo caso è quello di evitarne l’uso a partire dalle ore 15-16:00 al massimo.
Possibili integrazioni da valutare invece in caso di scarso sonno sono zinco, magnesio e vitamina B6 (a patto che ne sia dimostrata con esami ematochimici una carenza). Il magnesio infatti sembra promuovere lo stato di relax e il suo assorbimento è supportato dalla vitamina B6, che oltre a questa funzione produce anche un enzima, il piridossalfosfato, che agisce da coenzima nella decarbossilazione del glutammato al fine di generare GABA, il principale neurotrasmettitore inibitorio del cervello. Lo zinco, invece, sembra attivare a livello del SNC una via di segnalazione responsabile della promozione del sonno.
Altre integrazioni solitamente consigliate sono direttamente quelle di triptofano e melatonina: quest’ultima è un ormone che viene naturalmente prodotto dal nostro corpo tra le 22 e le 24 e che aiuta l’addormentamento.
In conclusione quindi possiamo affermare che i giusti consigli, il corretto timing di assunzione di alcuni alimenti e le giuste integrazioni possono permettere di migliorare sensibilmente la qualità del sonno e, di conseguenza, di sentire meno stanchezza e fatica nelle quotidiane prestazioni di vita.
Federica Sandiano, Biologa nutrizionista
Elizabeth Blackburn, biologa australiana, ha scoperto come l’invecchiamento sia strettamente legato alla lunghezza dei telomeri, piccole particelle che proteggono le estremità dei cromosomi. Ogni volta che le cellule del DNA si dividono per rinnovare organi e tessuti, i telomeri si accorciano, diventando talmente piccoli da non essere più in grado di svolgere l’attività protettiva. Quando verrà a mancare la disponibilità di questa protezione, la cellula smetterà di funzionare e non riuscirà più a replicarsi.
Da qui il concetto di invecchiamento.
Per rallentare l’invecchiamento e mantenere una situazione di benessere generale, sarà possibile agire direttamente sui telomeri. Al fine di prevenirne l’accorciamento, dovremmo avere una mente libera dallo stress ed intraprendere uno stile di vita sano, caratterizzato dall’alimentazione corretta, dall’attività fisica costante su misura e dal rigoroso recupero, diversificandoli e programmandoli in base al soggetto in tutta la sua individualità (Fit-check: età, genere, storico, condizione attuale, ecc).
Che cos’è l’anti-aging?
Immaginiamo che ciascuno di noi possa disporre di un triangolo (figura geometrica propriamente detta) con tutti i lati modulabili.
I lati di questo triangolo hanno un nome e si chiamano:
Questo triangolo molto raramente risulterà equilatero in un soggetto: apparirà quasi certamente scaleno, ossia con tutti i lati dalla misura differente. Alcuni esempi pratici:
Il concetto di anti-aging si baserà proprio su questo triangolo immaginario: le linee guida inerenti all’allenamento, l’alimentazione ed il recupero dovranno tendere a modellare il triangolo scaleno in origine per avvicinarlo nel tempo ad essere sempre più equilatero.
Il tempo per raggiungere l’obiettivo (Fitness goal) varierà da persona a persona, così come diversa sarà la risposta fisiologica nell’avvicinarsi al proprio triangolo equilatero. Ogni soggetto, quindi, avrà una misura del lato differente da un altro.
Non esistono l’allenamento e l’alimentazione perfette o ideali che dir si voglia; esistono le persone in tutte le loro variabili fisiologiche e soggettive.
Il soggetto dovrà essere sottoposto ad un’accurata consulenza (Fit-check), specifica sotto vari aspetti, al fine di determinare una serie di dati che, dopo essere stati periodicamente elaborati, lo guideranno ad equilibrare tutti i lati del triangolo sopra descritto.
Federico Lutri, Personal trainer
Il diabete è una condizione cronica che influenza la capacità del corpo di gestire correttamente il glucosio (zucchero) nel sangue. Esistono diversi tipi di diabete, i più comuni sono il diabete di tipo 1, il diabete di tipo 2 e il diabete mellito
Diabete di Tipo 1: Alimentazione e Insulina
Il diabete di tipo 1 è una malattia autoimmune in cui il sistema immunitario attacca e distrugge le cellule beta del pancreas, responsabili della produzione di insulina, l'ormone che permette al glucosio di entrare nelle cellule per essere usato come energia. Senza insulina, i livelli di zucchero nel sangue possono aumentare pericolosamente.
Principi dell'alimentazione nel diabete di tipo 1
Nel diabete di tipo 1, il cibo e l'insulina sono strettamente collegati. Una persona con questa condizione deve somministrarsi insulina esogena, tipicamente tramite iniezioni o un microinfusore, per compensare la mancanza di insulina naturale. Pertanto, è importante imparare a contare i carboidrati nei pasti per calcolare con precisione la quantità di insulina necessaria.
Tipi di alimenti da tenere sotto controllo
Raccomandazioni nutrizionali
Diabete di Tipo 2: Dieta per il Controllo della Glicemia e del Peso
Il diabete di tipo 2 è caratterizzato da insulino-resistenza, cioè le cellule del corpo non rispondono correttamente all'insulina, e spesso da una produzione insufficiente di insulina. Questo tipo di diabete è strettamente legato allo stile di vita, in particolare al sovrappeso, all'obesità e alla sedentarietà. Tuttavia, con cambiamenti nello stile di vita e una dieta adeguata, è possibile controllare efficacemente il diabete di tipo 2 e, in alcuni casi, anche invertire i sintomi.
Obiettivi nutrizionali nel diabete di tipo 2
Tipi di alimenti da includere nella dieta
Strategie alimentari raccomandate
Diabete Mellito: Considerazioni Generali
Il termine "diabete mellito" si riferisce sia al diabete di tipo 1 che al diabete di tipo 2, indicando una condizione in cui il corpo non è in grado di regolare efficacemente i livelli di glucosio nel sangue.In entrambi i casi, la nutrizione è un pilastro fondamentale della gestione della malattia.
Esempio di piano giornaliero per il Diabete Mellito
Questo piano è basato su alimenti bilanciati e adatti a mantenere stabili i livelli di zucchero nel sangue. Le porzioni vanno adattate alle esigenze individuali.
Linee guida generali:
Questo esempio di piano alimentare è indicativo e dovrebbe essere adattato alle esigenze specifiche di ogni persona con diabete mellito, in collaborazione con un professionista della salute.
Importanza della personalizzazione della dieta
Ogni persona con diabete è diversa e, per questo, è importante che la dieta sia personalizzata in basealle necessità individuali. Un biologo nutrizionista può aiutare a valutare il fabbisogno calorico e a creare un piano alimentare su misura, considerando anche l'attività fisica, la presenza di altre condizioni mediche e le preferenze alimentari.
Ruolo della dieta nel prevenire complicazioni
Una corretta gestione del diabete attraverso l'alimentazione può prevenire o ridurre il rischio di complicanze a lungo termine come:
Una dieta bilanciata, povera di zuccheri raffinati, grassi saturi e ricca di fibre, antiossidanti e grassi sani, è essenziale per ridurre il rischio di queste complicanze.
Consigli Pratici per una Nutrizione Equilibrata
Conclusioni
La gestione del diabete, sia di tipo 1 che di tipo 2, richiede un approccio olistico che combini una dieta bilanciata, l'esercizio fisico e, se necessario, l'uso di farmaci o insulina. Conoscere i principi fondamentali dell'alimentazione per il diabete e adottare una dieta adatta alle proprie esigenze personali può migliorare significativamente la qualità della vita e prevenire complicanze a lungo termine. Il supporto di un biologo nutrizionista è essenziale per personalizzare la dieta e affrontare al meglio questa condizione complessa.
Dott. Miriam Masotti (biologa nutrizionista)
Sono molte le variabili da tener conto per non rispondere superficialmente a queste domande. Spesso si dice di non mangiare due ore prima di allenarsi partendo dall’affermazione che il nostro organismo non deve essere impegnato nella digestione durante l’allenamento; ho però riscontrato spesso che uno dei maggiori errori, sia dai novizi frequentatori di palestre e centri sportivi sia da atleti di esperienza, è proprio quello di arrivare digiuni.
Una colazione a base di cappuccio e brioche, con un tramezzino veloce a pranzo non basta ad evitare una ipoglicemia sicura dopo 30 minuti di attività fisica effettuata al tardo pomeriggio, orario classico in cui le palestre di tutto il pianeta si “riempiono”.
La conseguenza? capogiri, nausea, “visi pallidi” in cerca di zucchero .
Iniziare un workout “affamati” significherà presto andare in riserva energetica, distruggendo tessuto muscolare, porterà ad allenarsi svogliatamente e non adeguatamente.
D’altra parte sarebbe estremamente controproducente lasciarsi andare a libagioni esagerate prima di allenarsi.
Una alimentazione che ci garantisca una glicemia regolare per buona parte della giornata porrà le basi giuste per una buona performance sportiva. Facciamo nostro il detto : “glicemia costante, appetito silente”.
Piccoli pasti frequenti anziché pasti radi ma abbondanti evitano l’azione lipotropica e l’apparato digerente non è sovraccaricato di lavoro.
Al contrario sbalzi glicemici si ripercuotono su attività fisica e cerebrale con una conseguente diminuzione della performance.
Stabilito come sia indispensabile apportare il giusto nutrimento durante tutta la giornata cerchiamo dunque di comprendere meglio cosa dovrebbe mangiare uno “sportivo” pre, durante e post allenamento/gara.
Inoltre gli stessi spuntini assumono peso specifico diverso se l’allenamento è svolto al mattino, al pomeriggio o in orario serale.
Alcuni sport, come il Taekwondo, la ginnastica ritmica, il pugilato e molti altri richiedono il rientro in determinate categorie di peso, solitamente monitorato il giorno prima della gara; l’atleta spesso vive tale valutazione del peso quasi con la stessa ansia della competizione, lasciandosi andare a bagordi culinari senza criterio il giorno della gara, a seguito di restrizioni esagerate.
Tale pratica è da evitare sia per non andare in gara con gonfiori addominali e/o ritenzioni idriche che certamente non aiutano la performance, sia, soprattutto, per non incorrere a problematiche di salute derivanti da pratiche estreme per raggiungere il peso.
La dieta prepeso è una delicata omeostasi tra Kcalorie e macronutrienti, sali e liquidi, per avere il massimo delle prestazioni e un peso ponderale che deve necessariamente rientrare nella categoria di appartenenza, in quella data, a quella ora.
Negli ultimi giorni ci si gioca la partecipazione e si devono curare tutti i dettagli, mettendo a dura prova l’equilibrio psicofisico degli atleti.
Lasciate dunque la pizza a dopo la competizione, per festeggiare, magari, la vittoria; dopo il controllo del peso dobbiamo pensare a recuperare forza ed energia per la/le gare.
Necessario, in primis, reintegrare liquidi con sali e zuccheri: 1⁄2 litro di acqua con sali di Potassio e Magnesio ( es. Polase bustine) e maltodestrine/ciclodestrine può essere la prima scelta. In assenza di questo, bevande pronte idrosaline (es. Isostad). Alla peggio, solo questo caso post peso e non tra una gara e l’altra, può andare bene anche una lattina di Coca Cola.
Se il peso viene controllato al mattino o al pomeriggio, il pranzo e/o la cena dovrà comprendere tutti e 3 i macronutrienti; a mero titolo di esempio : 130/150 gr di riso o pasta con sugo leggero e 130 gr di petto di pollo ai ferri con sale.
Lasciate perdere merendine, biscotti, crackers, dolci e panificati industriali che subiscono troppi processi di raffinazione e conservazione lasciando solo “calorie vuote” oltre che patatine fritte e Wurstel.
La colazione del mattino pregara deve comprendere anch’essa tutti e 3 i macronutrienti e consumata 3 ore prima: fette biscottate e marmellata non sono la miglior scelta di glucidi soprattutto se non adeguatamente bilanciati da proteine e lipidi; meglio, ad esempio, uova sotto ogni forma (a parte fritte) e/o prosciutto cotto/crudo con 2/3 pane, preferibilmente tostato e frutta secca di gradimento.
Spuntino pre allenamento/gara
Stiamo parlando dunque di un mini pasto da consumarsi da un ora a pochi minuti pre training/gara; lo scopo è quello di avere il carburante necessario per svolgere l’allenamento/gara con la “giusta carica”.
E’ chiaro che lo stesso deve esser preceduto da una pasto bilanciato in tutti e 3 i macronutrienti e adeguato allo sforzo fisico da sostenere.
Il mini pasto pre allenamento deve avere elevata digeribilità e densità energetica (ca 250-300kcal). Prevalenza glucidica, possibilmente derivante da alimenti caratterizzati da basso e medio indice glicemico, legato alla durata dell’allenamento.
Prima di una performance sportiva, errare lo spuntino pre gara può comprometterne l’esito, creando problemi di digestione, acidità, reflusso o problemi intestinali.
Un pasto ad alto contenuto proteico potrebbe provocare crampi muscolari richiamando acqua nell’apparato digerente per la metabolizzazione proteica sottraendola dunque ai muscoli sotto tensione.
L’obiettivo è garantire lo svuotamento gastrico e l’assorbimento intestinale.
Atleti che patiscono emotivamente la tensione della prestazione possono orientarsi su cibi “fluidi” (esempio frullati).
Non assumere cibi contenti molte fibre o ricchi di grassi o alimenti o bevande piene di zuccheri raffinati.
Il grafico seguente può aiutare schematicamente a comprendere i tempi di assunzione dei macronutrienti in relazione all’avvicinarsi del momento allenante.
A titolo di mero esempio: ad 1 ora pre allenamento:
20 minuti prima:
Durante l’allenamento/gara ?
Possiamo considerare la possibilità di uno spuntino “fluido” durante il training, come ad esempio l’assunzione di maltodestrine o ciclodestrine che hanno un rilascio graduale nel torrente ematico, ben solubili in acqua .
Evitate l’uso di bustine di zucchero (saccarosio) o cioccolata che creano sbalzi glicemici e conseguenti picchi insulinici con conseguente ipoglicemie e rischio di svenimenti.
Da considerare inoltre che un esercizio fisico intenso comporta una perdita di elettroliti, sodio e di potassio, attraverso il sudore ; una integrazione può essere necessaria solo quando le perdite siano molto elevate.
Altresì la “sete” non è un attendibile indicatore di idratazione del nostro organismo. Siamo già in “riserva” quando arriva questo segnale.
La disidratazione comporta un aumento della temperatura corporea che può tradursi in senso di fatica e colpo di calore.
Il quantitativo di liquidi consigliato per chi non svolge attività fisica abitualmente è di 1 ml di acqua per ogni caloria; in altre parole, 1 litro di acqua ogni 1000 calorie assunte;
Aumenta per gli atleti : necessario in tal caso effettuare un rifornimento idrico, preventivo e continuo, una o due ore prima dell’attività fisica, soprattutto se svolta all’aperto.
Durante l’allenamento, se prolungato o tra una gara e l’altra, possono anche essere assunti sali sottoforma di aspartati di Potassio e Magnesio per prevenire crampi, stanchezza e debolezza muscolare (es. Polase) .
Il Potassio interagisce con il sodio e il cloro nella conduzione degli impulsi nervosi.
Il Magnesio è fondamentale per la contrazione muscolare e la funzione nervosa, tic, tremori e debolezza muscolare ne evidenziano una carenza. Anche qui però il “fai da te” non è consigliato. La loro assunzione è controindicata in caso di insufficienza renale o surrenalica.
Il Sodio, uno dei principali elettroliti del corpo umano, lo si trova ovunque nel cibo e lo si aggiunge spesso con i procedimenti alimentari, soprattutto nei paesi industrializzati.
1 gr di Sodio equivale a 2,5 gr di sale da cucina. L’OMS, l’Organizzazione mondiale della Sanità, suggerisce di non superare il limite giornaliero di 5 gr di sale. Non è certo da integrare.
L’atleta di Taekwondo il giorno di gara sostiene più combattimenti e dunque è necessario fornire calorie “buone” durante tutta la giornata di gara per mantenere energia ed evitare cali di concentrazione.
Piccoli pasti frequenti garantiranno una glicemia e dunque un apporto energetico costante.
Esistono in commercio bevande glucidico/proteiche già pronte piuttosto che delle barrette “tecniche” da poter assumere al mattino e/o al pomeriggio di gara.
E’ chiaro che se passa molto tempo (ore) tra una competizione e l’altra sarà necessario mangiare pasti tali da apportare tutti e 3 i macronutrienti come la piramide sopra indicata, come ad esempio, perché no, un ottimo panino al prosciutto e formaggio.
E dopo l’allenamento/gara ?
Si suole dire che Il “muscolo prima recupera e poi pensa e crescere” ; questo per sfruttare al meglio il fenomeno chiamato “finestra anabolica”, breve periodo post allenamento in cui il muscolo, al pari di una spugna, è predisposto ad immagazzinare energia, sostanze nutritive al fine di riparare il tessuto muscolare e ripristinare le scorte energetiche (glicogeno).
E’ generalmente comunque consigliato l’assunzione di carboidrati a medio e ad alto indice glicemico per ripristinare le scorte di glicogeno consumate durante lo sforzo entro 30 minuti post workout ( attendere più tempo potrebbe inficiare il recupero rallentando la ricostituzione delle scorte) e "proteine veloci", come quelle del siero del latte idrolizzate per riparare e favorire la ricostruzione, per supercompensazione, del tessuto muscolare.
Mi preme sottolineare come tali consigli debbano poi tradursi in una alimentazione il più possibile personalizzata per conciliare sinergicamente performance atletiche e salute a lungo termine.
Dott. Pierluigi Vagali (biologo nutrizionista)
Il Disturbo da Attacchi di Panico colpisce prevalentemente l’età giovanile e i più recenti studi epidemiologi ci mettono in evidenza il fatto che ne è interessato il 33% dei giovani di età compresa tra i 18 e i 25 anni, nel senso che un giovane su tre di questa fascia incontra uno dei multiformi aspetti della sintomatologia DAP.
I sintomi consistono nel ripetersi di stati d’ansia acuti ad insorgenza improvvisa e di breve durata. Gli episodi acuti sono accompagnati da sintomi neurovegetativi e psicosensoriali di frequenza ed intensità variabili per cui si presentano quadri clinici tra loro molto diversificati. É in ogni modo possibile individuare alcuni aspetti fondamentali comuni a tutti gli attacchi di panico:
Gli attacchi spesso si manifestano “a ciel sereno”, nel senso che, al momento dell’attacco, non è presente una situazione in grado di costituire motivo d’ansia, trattandosi sovente di situazioni routinarie: passeggiando per strada, guidando l’auto, assistendo ad una proiezione cinematografica, facendo acquisti al supermercato. Talora, invece, il primo episodio si manifesta in situazioni drammatiche della vita del paziente, come gravi incidenti o morti improvvise di persone care. Può anche manifestarsi in concomitanza con l’assunzione di sostanze stupefacenti, in particolare marijuana, cocaina, amfetamine.
Inoltre, nel 50% dei casi, sia la prima crisi sia quelle successive compaiono durante il sonno, determinando un risveglio angosciato.
I sintomi psichici dell’attacco sono tipicamente rappresentati da paura, terrore, sensazione di morte imminente, timore di perdere il controllo delle proprie idee (impazzire) o delle proprie azioni. A questi si associano sintomi neurovegetativi quali palpitazioni, dolore toracico, dispnea, sensazione di soffocamento, vertigini, vampate di calore, brividi di freddo, tremori e sudorazione profusa.
In circa un terzo dei casi si manifestano anche fenomeni psicosensoriali quali depersonalizzazione (il soggetto si sente come fuori dal suo corpo e distaccato da esso) e derealizzazione (il soggetto ha la sensazione di non essere reale, né lui né ciò che lo circonda e ha l’impressione che intorno a sé il senso della realtà sia alterato).
Le manifestazioni comportamentali sono meno comuni e spesso la crisi passa inosservata ai presenti poiché il soggetto cerca di nascondere le sensazioni provate. Talora però il paziente interrompe l’attività in corso e si allontana, cercando di raggiungere in fretta un luogo sicuro.
È presente fin dalle fasi iniziali della malattia uno stato di paura e di ansietà, l’ansia anticipatoria, consistente nel timore che gli attacchi di panico possano ripetersi. Tale ansia può determinare marcata sofferenza soggettiva e notevole compromissione del funzionamento sociale, lavorativo e affettivo.
Mentre l’attacco di panico ha insorgenza improvvisa e dura pochi minuti, l’ansia anticipatoria cresce lentamente e può durare anche molte ore. Inoltre è possibile ridurla o controllarla allontanandosi dalla situazione ansiogena o cercando rassicurazioni da una persona di fiducia. L’attacco di panico, invece, quando comincia non può più essere bloccato: si comporta quindi come una reazione del tipo “tutto o nulla” e sfugge ad ogni controllo quando il meccanismo è innescato.
Nel 20% dei casi si manifesta un’elaborazione ipocondriaca: i pazienti temono o sono convinti di soffrire di una malattia fisica, chiedono ripetutamente l’intervento del medico internista o di altri specialisti e del Pronto Soccorso. Le preoccupazioni ipocondriache riguardano in genere il timore di una grave malattia cardiaca, come l’infarto o la paura di una morte improvvisa per ictus cerebrale.
Nei 2/3 dei casi si vengono a strutturare le condotte d’evitamento, conseguenti al fatto che i pazienti associano gli attacchi di panico a situazioni o luoghi specifici. Evitando di restare soli, di allontanarsi da casa, di recarsi in luoghi affollati o di usare mezzi pubblici, gli attacchi di panico diventano meno frequenti e più tollerabili. Si parla di agorafobia quando le limitazioni imposte dall’evitamento interferiscono con attività importanti della vita di tutti i giorni. I pazienti agorafobici evitano piazze, luoghi affollati, ponti, tunnel, ascensori, autostrade, treni, autobus e molte altre situazioni nelle quali può risultare difficile fuggire o ricevere aiuto nel caso di una crisi improvvisa. Alcuni diventano completamente incapaci di uscire da soli o possono farlo solo in compagnia di una persona rassicurante nella quale ripongono particolare fiducia.
Le condotte agorafobiche sono determinate sia dall’evitamento di situazioni specifiche sia dalla ricerca di elementi rassicuranti. I modi più frequenti mediante i quali è ricercata la rassicurazione sono: avere la possibilità di tornare velocemente a casa, essere con una persona di fiducia, sedersi vicino alle uscite, parlare tra sé.
I pazienti agorafobici possono continuare ad avere attacchi di panico per anni, anche se la loro frequenza di solito si riduce con il progredire delle condotte d’evitamento. Tipicamente l’agorafobia assume un andamento cronico, provoca notevoli limitazioni dell’autonomia personale ed è vissuta come una condizione inabilitante e fastidiosa dalla quale sembra impossibile liberarsi.
Le possibili evoluzioni del DAP
Il decorso del DAP è molto variabile. In alcuni casi gli attacchi di panico si presentano in forma sporadica nella giovinezza o nell’adolescenza e scompaiono nell’età adulta, non compromettendo in maniera rilevante l’adattamento sociale. Raramente richiedono l’intervento del medico.
Nel 30% dei casi assumono un andamento fasico, con periodi di remissione alternati a periodi di riacutizzazione. Negli intervalli il quadro è spesso asintomatico. Nelle fasi di riacutizzazione, invece, sono presenti l’ansia anticipatoria e la ricerca di rassicurazioni.
L’evoluzione più comune del DAP (70%) è rappresentata dall’instaurarsi di condotte d’evitamento agorafobiche, con lo sviluppo dei tipici comportamenti descritti nel paragrafo precedente. Alcuni pazienti presentano una storia di attacchi di panico sporadici, seguiti da agorafobia grave ed invalidante che si protrae per molti anni, in assenza di crisi acute.
In un terzo dei pazienti si ha la sovrapposizione di una sintomatologia depressiva caratterizzata da umore depresso, disinteresse per le normali attività giornaliere, sentimenti d’inadeguatezza ed inutilità. A differenza dei pazienti con disturbi primari del tono dell’umore, gli agorafobici non presentano disturbi del sonno né della sfera alimentare e sessuale e, all’interno del loro ambiente, mantengono molteplici interessi e conducono attività dalle quali possono trarre piacere e soddisfazione.
I vissuti soggettivi del DAP
Focalizzando l’attenzione sul vissuto soggettivo del disturbo, è possibile evidenziare alcuni stati emotivi presenti.
Vissuto del primo attacco
Il soggetto è spesso in grado di citare ora, giorno, mese e anno del primo attacco, ricordato con precisione e raccontato in maniera vivida e con ricchezza di particolari. Il vissuto ad esso associato è descritto come il passaggio ad un’altra dimensione e le frasi che sottolineano tale situazione sono del tipo: “Da quel momento la mia vita è cambiata”, “Dopo quella crisi non sono più stato lo stesso”. Il vissuto è quindi di un radicale cambiamento della propria esistenza, che ora presenta limiti imposti dalle condotte d’evitamento, peraltro intese come necessarie per contrastare il timore/terrore che gli attacchi possano ripresentarsi. E’ spesso radicata l’associazione tra il primo attacco e la situazione in cui esso si è manifestato: se, ad esempio, si è verificato in un locale pubblico, il soggetto ne evita accuratamente la frequentazione; se è avvenuto durante la guida, evita di guidare; se è avvenuto a seguito dell’assunzione di sostanze stupefacenti, teme che esse abbia- no determinato un danno irreparabile alle strutture cerebrali e attribuisce loro il ripetersi delle crisi anche dopo la loro completa sospensione.
Vissuto di incomprensibilità
Nonostante i tentativi di comprensione, prevale l’impossibilità di dare alle crisi una spiegazione causale valida e plausibile. Ciò determina un vissuto d’incomprensibilità e
le crisi appaiono inspiegabili, con conseguente vissuto di disorientamento. La maggior parte dei soggetti ha alle spalle una storia di numerosi accertamenti medici con esito negativo, oltre che di svariate diagnosi formulate per i loro disturbi dai molti medici cui si sono rivolti. Gli specialisti più frequentemente consultati sono i cardiologi, per i timori della presenza di un disturbo cardiaco, gli otorinolaringoiatri, per la presenza dei sintomi vertiginosi e i gastroenterologi, per la frequente presenza di problemi colitici. A causa dei fallimenti terapeutici dei vari consulti specialistici si rinforza nei pazienti un sentimento di sfiducia nella possibilità di guarigione.
Vissuto di vergogna
Il vissuto di vergogna è strettamente legato alla paura di perdere il controllo delle proprie idee (cioè di impazzire) e delle proprie azioni (di compiere cioè gesti di tipo autolesivo o lesivo nei confronti di altri). Da ciò deriva il timore di essere considerati “anormali” o “matti”.
Vissuto di rabbia/rassegnazione
In alcuni soggetti prevale la rabbia per un disturbo che manifesta la sua presenza attraverso i sintomi, ma che appare inafferrabile dal punto di vista diagnostico e da quello terapeutico.
In altri prevalgono vissuti di rassegnazione attraverso l’adattamento ad uno stile di vita condizionato dalle condotte d’evitamento e quindi nettamente inferiore alle potenzialità soggettive. Nella maggior parte dei casi rimane attivo un atteggiamento di ricerca finalizzato a dare un nome al disturbo e a trovare un modo per curarlo. Frequente è la ricerca di testi specifici sull’argomento del DAP.
L’atteggiamento di parenti, amici e conoscenti
L’atteggiamento dei familiari è inizialmente di comprensione e compartecipazione allo stato di sofferenza. Con il passare dei mesi e con il susseguirsi degli esami diagnostici negativi e degli inutili consulti specialistici, anche i familiari vengono però presi da un
senso di sconforto e sfiducia. In alcuni casi diventano aggressivi ed assumono un atteggiamento colpevolizzante.
Di solito è l’ambito familiare quello in cui avviene primariamente la ricerca di supporto e solo raramente i pazienti ne parlano con amici o compagni di studio o di lavoro. Alla base di ciò è la presenza del vissuto di vergogna di cui si è parlato in precedenza, assieme alla convinzione che il disturbo di cui soffrono, già misterioso per loro stessi e per i vari medici consultati, non possa essere compreso dagli altri. Si viene così a determinare la convinzione che il parlarne non sarebbe d’alcun aiuto e servirebbe solo ad essere etichettati come “matti”.
Le ipotesi interpretative delle cause
Una delle caratteristiche degli Attacchi di Panico è la loro apparente inderivabilità, nel senso che non è possibile individuare una spiegazione comprensibile della loro origine. Di fatto la via della logica e della razionalità si mostra poco percorribile per la comprensione delle crisi ed è invece necessario seguire la via psicologica.
Un conflitto o un nodo problematico collocato nell’inconscio, escluso quindi dalla coscienza, esprime la sua presenza dando origine a sintomi, che sono l’espressione del fatto che la persona è portatrice di un disagio psicologico e di uno stato di malessere. E’ in questa prospettiva che va collocata la lettura dell’origine degli Attacchi di Panico che vanno interpretati come l’espressione di uno stato di malessere psicologico, di cui il soggetto non è consapevole e che si manifesta attraverso i sintomi.
Il DAP e il disagio giovanile
Gli Attacchi di Panico interessano, come già evidenziato, il 33% della popolazione tra i 18 e i 25 anni e ciò ne sottolinea la rilevanza sociale. Essi s’inseriscono nel contesto del disagio giovanile in quanto sintomi-segnali dello stato di disorientamento dei giovani e di vuoto lasciato dalla crisi dei valori.
Solitudine, incomunicabilità, situazioni familiari critiche, difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro possono esprimersi con il ricorso ad alcolici o stupefacenti, con atteggiamenti violenti ed aggressivi, ma anche attraverso gli Attacchi di Panico che diventano allora l’espressione psichica del malessere e del disagio.
È importante non fermarsi ai farmaci che, per quanto efficaci nella cura dei sintomi, sono invece inefficaci sul disagio psichico da cui originano. Chi soffre
d’Attacchi di Panico è portatore di un malessere psichico e diventa fondamentale decodificare, attraverso un lavoro psicologico, il senso del disturbo, coglierne il significato, attivando un percorso che consenta non solo di debellare i sintomi, ma anche di rimettere in moto il processo di crescita personale.
Dott.ssa Cristiana Sardelliti (psicologa)
L’ansia
L’ansia è definita come una reazione istintiva di difesa, un allarme proprio dell’istinto di conservazione, ma anche come uno stato di tensione emotiva cui spesso si accompagnano sintomi fisici come tremore, sudorazione, palpitazioni ed aumento della frequenza cardiaca. L’ansia è un’emozione che anticipa il pericolo e si accompagna ad un aumento della vigilanza ed all’instaurarsi di un complesso meccanismo fisiologico di allarme. L’ansia patologica si caratterizza come una risposta inappropriata a preoccupazioni esistenziali o relative all’ambiente e la cui conseguenza principale è rappresentata da un’alterazione delle normali capacità individuali.
La sindrome ansiosa comprende sintomi di tipo psichico, somatico e comportamentale. Per quanto riguarda il quadro clinico, i pazienti affetti da questo disturbo appaiono cronicamente ansiosi ed apprensivi e lamentano un prolungato stato di preoccupazione per circostanze ordinarie della vita di tutti i giorni. In assenza di gravi, ma soprattutto realistiche motivazioni, riferiscono sentimenti di apprensione circa la salute e l’incolumità fisica dei familiari, la situazione finanziaria, le capacità di rendimento lavorativo o scolastico. Esemplificativa a questo proposito è la figura della madre che teme per il figlio, temporaneamente assente, ogniqualvolta avverte la sirena dell’autoambulanza o ad ogni squillo telefonico inatteso, pur essendo consapevole che non si trovi in quel momento in una situazione di pericolo reale.
Si viene quindi ad instaurare un continuo stato di allarme ed ipervigilanza dovuto alla convinzione che certi eventi negativi abbiano la possibilità di verificarsi.
La componente somatica associata è costituita da sintomi a carico del sistema neurovegetativo, tra i quali spiccano respiro affannoso, palpitazione, sudorazione, particolarmente al palmo della mano, secchezza delle fauci, sensazione di “nodo alla gola”, di “testa vuota e leggera”, vampate di caldo; frequenti sono i disturbi della serie gastroenterica: meteorismo, dispepsie, nausea e diarrea.
I sintomi legati ad una spiccata tensione muscolare, particolarmente al capo, al collo e al dorso, sono spesso responsabili dei dolori diffusi e delle cefalee localizzate in sede occipitale e frontale.
Talvolta il coinvolgimento della sfera muscolare comporta invece tremore e/o contrazioni e irrigidimenti degli arti superiori.
Lo stato di apprensione sostiene infine sintomi della sfera cognitiva (ridotta concentrazione, facile distraibilità, disturbi della memoria), e della vigilanza (irrequietezza, irritabilità, nervosismo, facilità a sussultare, stato di allarme). I disturbi del sonno si manifestano sotto forma di insonnia iniziale, centrale o di sonno interrotto da frequenti risvegli; l’insonnia può essere uno dei sintomi che conducono il paziente dal medico di famiglia e/o può indurre la complicanza dell’uso indiscriminato di ipnotici o ansiolitici in genere.
La sintomatologia somatica con livelli di gravità attenuati viene dal paziente interpretata come una serie di malesseri fisici, isolati o ricorrenti. Generalmente tali sintomi motivano la richiesta dell’intervento medico, soprattutto quello del medico di base, e comportano l’esecuzione di esami di laboratorio e indagini radiologiche anche complesse, con ripercussioni sia sul piano sociale sia dei costi sanitari. Tuttavia, più che la convinzione di un male incurabile, il paziente con ansia generalizzata sosterrà di avere una malattia fisica, in opposizione ad un’origine psichica dei suoi disturbi, conferendo talvolta dignità di malattia ad elementi di ridotto significato clinico (ipotensione arteriosa, gastralgie, colon irritabile).
Come riconoscere uno stato ansioso
Facendo riferimento al DMS, la presenza di uno stato ansioso che necessita di trattamento terapeutico si riconosce per la presenza concomitante dei seguenti sintomi:
- ansia e preoccupazioni eccessive (attesa apprensiva) che si manifestano per la maggior parte dei giorni da almeno sei mesi, a riguardo di una quantità di eventi o di attività (come prestazioni lavorative o scolastiche);
- difficoltà nel controllare la preoccupazione;
- l’ansia, la preoccupazione o i sintomi fisici causano disagio clinicamente significativo o menomazione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti; - l’alterazione non è dovuta agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es., un abuso di droga, un farmaco) o di una condizione medica generale (per es., ipertiroidismo); - l’ansia e la preoccupazione sono associate con tre (o più) dei sei sintomi seguenti (con alcuni di essi presenti per la maggior parte dei giorni negli ultimi sei mesi): 1. irrequietezza, o sentirsi tesi o con i nervi a fior di pelle;
2. facile affaticabilità;
3. difficoltà a concentrarsi o vuoti di memoria;
4. irritabilità;
5. tensione muscolare;
6. alterazioni del sonno (difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno, o sonno inquieto e insoddisfacente).
Fattori di rischio
Molti fattori di rischio preparano il terreno per lo sviluppo dei disturbi d’ansia in generale.
- I modelli comportamentali dei disturbi d’ansia sono basati sulla teoria bifattoriale di Mowrer (lo sviluppo di un disturbo d’ansia avviene in due fasi: prima condizionamento classico, poi operante). L’estensione di questi modelli tiene conto del fatto che il condizionamento può essere prodotto per esposizione diretta del soggetto ad un certo evento, per osservazione di qualcun altro che sperimenta quell’evento (modeling) oppure a seguito di indicazioni verbali.
– Fattori genetici: alcuni geni possono aumentare il rischio per vari tipi di disturbi d’ansia mentre la presenza di altri geni può costituire un fattore di rischio per uno specifico disturbo.
- Fattori neurobiologici: il circuito della paura tende ad attivarsi quando le persone sono in preda all’ansia o alla paura: questo circuito sembra essere coinvolto nei disturbi d’ansia. L’amigdala ha la funzione di assegnare agli stimoli il loro significato emozionale. Molti disturbi d’ansia si spiegherebbero con un’iperattività nel circuito cerebrale della paura. Anche alcuni neurotrasmettitori sembrano essere coinvolti nei disturbi d’ansia, i quali sembrano correlati ad un’ipoattività del sistema serotoninergico e con livelli più elevati di noradrenalina. Il GABA ha tra i suoi effetti quello di diminuire l’ansia, perciò la sua ipofunzionalità potrebbe contribuire alla genesi dell’ansia.
Ad influenzare il rischio di sviluppare un disturbo d'ansia e la specifica sintomatologia sviluppata dal singolo soggetto contribuiscono, inoltre:
− il genere: le donne hanno probabilità doppia rispetto agli uomini;
− i fattori socioculturali: gli oggetti dell'ansia e della paura sono collegati all'ambiente e alle attitudini tipici della cultura in cui la sindrome si manifesta.
Fattori cognitivi:
− convinzioni negative persistenti riguardo al futuro
Questi pensieri persistono attraverso i comportamenti di salvaguardia messi in atto dagli individui, nella convinzione di proteggersi dalle conseguenze che temono;
− percezione della mancanza di controllo
Le esperienze infantili, come eventi traumatici, uno stile genitoriale punitivo o oppressivo o avere subito abusi, possono promuovere nel bambino il convincimento che sia impossibile controllare il proprio ambiente e la propria vita.
E i disturbi d'ansia spesso si sviluppano dopo eventi esistenziali drammatici, che mettono in discussione il senso di controllo dell'individuo sulla propria vita.
Sia esperienze passate che recenti di mancanza di controllo possono influenzare lo sviluppo o meno di un disturbo d'ansia.
− attenzione a potenziali minacce
I disturbi d'ansia si associano a un’attenzione selettiva verso indizi minacciosi; questo orientamento dell'attenzione verso stimoli minacciosi è molto rapido e automatico, avviene prima ancora che il soggetto sia cosciente dello stimolo. Una volta che la loro attenzione è stata catturata, le persone che soffrono d'ansia hanno molta difficoltà a distogliere l'attenzione da quell’oggetto e tendono a restare concentrate su di esso (dot probe task).
Un training per l'orientamento dell'attenzione verso informazioni positive “bias attentivo positivo” fa trarre benefici a coloro che prestano eccessiva attenzione ai potenziali minacce; questo tipo di training contribuisce a ridurre la risposta del cortisolo ai fattori di stress.
Le conseguenze dell'ansia
L’ansia patologica interferisce con l’abilità di una persona a condurre una vita quotidiana produttiva e soddisfacente. L’ansia, infatti, compromette in maniera significativa la normale routine della persona, il suo funzionamento lavorativo o scolastico, le attività e le relazioni sociali. Inoltre, inficia a lungo andare anche il tono dell’umore. Frequente è la presenza di un livello elevato di ansia in chi soffre di depressione. Oltre alla compromissione del benessere psicologico dell'individuo, come evidenziato in precedenza, diverse possono essere le manifestazioni somatiche del disturbo, causa di danni organici. Fattori psicologici infatti come ansia e depressione, possono influenzare anche il recupero in termini di persistenza del dolore fisico, amplificandone la percezione, rendendoci sensibili a stimoli che sarebbero innocui per le persone “normali”.
Infine, con l'avvento delle tecniche di neuroimaging i ricercatori sono stati in grado di mostrare cambiamenti del funzionamento cerebrale conseguenti a esperienze emozionali traumatiche e alla terapia, evidenze importanti che dimostrano la connessione tra mente e corpo nei disturbi d'ansia.
Bisogno di controllo e la relativa ansia associata
Il bisogno di controllare tutto è guidato dalla paura. Molte persone si sentono spaventate e ansiose quando pensano a tutte le cose che sfuggono al loro controllo e a tutto ciò che potrebbe non andare per il verso giusto. Controllo e certezza ci danno un senso di sicurezza ed è dunque naturale la tendenza a voler controllare le cose, le emozioni e a volte le persone. Cercare di controllare le cose, essere rigidi, esigenti e perfezionisti diventa il nostro modo di affrontare la paura e l’ansia. Tutto ciò si ripercuote sul nostro corpo a livello psicosomatico su intestino, stomaco, schiena, bacino, spalle e collo creando rigidità muscolari che compromettono il funzionamento corporeo.
Dott.ssa Cristiana Sardelliti (psicologa)
Le diverse tipologie di diete chetogeniche sono accomunate dal fatto di:
La soglia di carboidrati da introdurre giornalmente è fissata a <50g/die, anche se questa soglia è soggetta a variabilità individuale.
Chetoacidosi metabolica
La dieta chetogenica non induce la condizione di chetoacidosi metabolica (o più correttamente chetoacidosi diabetica), in cui la sintesi dei corpi chetonici è talmente elevata da determinarne un accumulo a livello plasmatico, causando quindi l’acidosi metabolica, potenzialmente fatale. Nel soggetto sano non c’è questo rischio quando viene indotta la chetosi attraverso la restrizione glucidica, poiché la concentrazione di corpi chetonici non sarà superiore a 7-8 mM/L (soglia ben lontana dalla chetoacidosi diabetica dove si superano i 25mM/L).
La chetoacidosi diabetica si viene a determinare nel soggetto affetto da DMT1, in cui manca la regolazione insulinica.
Il cervello funziona anche senza introduzione di glucosio
Non è corretto dire che il cervello riesce a funzionare solo se viene assunto glucosio, altrimenti anche una condizione di digiuno prolungato comprometterebbe il suo funzionamento.
In condizioni di dieta non chetogenica il cervello utilizza il glucosio in modo preferenziale, quando invece viene indotta la chetosi, i corpi chetonici diventeranno il carburante preferenziale. Una piccola quota di glucosio continuerà ad essere prodotta (tramite gluconeogenesi) ed utilizzata.
La chetogenica è superiore ad altre diete in termini di perdita di peso?
La risposta è no. Ha soltanto un grandissimo vantaggio: quello di inibire l’appetito, e in modo molto più efficace rispetto all’introduzione esogena di chetoni. Questo meccanismo è dovuto all’azione probabile sulla grelina e sul GLP-1.
Si riesce quindi a seguire una dieta a bassissimo contenuto calorico (nella VLCKD siamo sulle 800kcal/die) senza soffrire eccessivamente la fame.
La chetogenica va bene per tutti?
Assolutamente no. Ed è il motivo per il quale non si deve MAI intraprendere un percorso di dieta chetonica scaricata da qualche sito, ricevuta da un amico, copiata da un social.
Le maggiori controindicazioni riguardano patologie cardiache, gravidanza, allattamento, età superiore a 70 anni, DCA, terapia con diuretici che eliminano potassio e altre.
La chetogenica si può fare solo con i prodotti confezionati?
Assolutamente no. La chetogenica si può seguire tranquillamente anche mangiando alimenti “veri”, con diverse restrizioni e accortezze.
Resta l’obbligo di assumere alcuni integratori specifici, tra i quali il multivitaminico, l’integratore di magnesio e potassio, l’integratore volto a prevenire la stipsi.
Cosa posso mangiare in chetogenica?
Sono ammessi alimenti che contengono prevalentemente proteine e lipidi, in quantità e contenuto di grassi variabile, soprattutto in funzione della tipologia di dieta chetogenica.
Sono quindi ammesse le carni, il pesce, gli oli, le uova, i formaggi, le spezie e le erbe aromatiche, le verdure di colore bianco e verde.
Yogurt e latte, frutta a guscio, semi oleosi, tè, caffè vanno modulati nell’assunzione. Vengono esclusi i legumi, i cereali, la frutta (fatta eccezione per eventuali, piccolissime, grammature di frutti di bosco), le bevande zuccherate.
La chetosi
La chetosi si instaura circa al terzo giorno di dieta. Si può monitorare tramite i chetoni urinari, i chetoni plasmatici, i chetoni nel respiro. Il test sicuramente più diffuso è quello sui chetoni urinari, dato che si tratta di un test rapido e poco costoso. È bene però tener presente che l’esito del test dipende dalla concentrazione dei corpi chetonici nelle urine, e quindi a quanta acqua ho assunto prima di fare il test. Per questo è in genere raccomandato effettuarlo al mattino, appena svegli.
La chetosi va, in ultimo, distinta dall’adattamento chetogenico, quindi dallo shift metabolico da quello glucidico a quello lipidico, per il quale occorrono circa 14 giorni.
Cosa sapere e fare prima di intraprendere una chetogenica
È necessario interfacciarsi con un professionista della nutrizione e col proprio medico. È bene programmare la dieta chetogenica, in modo tale da avere la serenità di poter affrontare il percorso senza interruzioni.
È, inoltre, fondamentale sapere che la chetogenica volta al dimagrimento è un mezzo per arrivare all’obiettivo, che non deve escludere il raggiungimento di un’alimentazione varia ed equilibrata a fine percorso. La fase I (la chetogenica vera e propria) è seguita dalla fase II, quindi da una graduale reintroduzione dei carboidrati, che porterà a seguire l’alimentazione più consona e adatta alla persona, e che sia il più ampia e varia possibile.
Perdere peso può diventare, con la giusta costanza e motivazione, relativamente semplice. Ma la sfida più grande è poi mantenere il risultato, acquisire un equilibrio sano e non lasciarsi andare, perché tanto poi al limite ci si mette a dieta di nuovo.
Dott.ssa Laura Kerer (biologa nutrizionista)
L'ansia da prestazione sportiva è un fenomeno comune tra gli atleti di tutte le età, ma può
assumere un significato particolare negli atleti in fase di sviluppo. Gli atleti spesso devono
affrontare pressioni da diverse fonti, come ad esempio allenatori, compagni di squadra, genitori e
perfino da se stessi.
L'ansia da prestazione sportiva è un'emozione intensa e spesso negativa che può influenzare le
prestazioni atletiche. Negli atleti l'ansia può essere amplificata dalle aspettative degli allenatori
dall’ ambiente societario e delle aspettative personali. Questo può portare a sensazioni di paura,
nervosismo, tensione e persino paura del fallimento.
Gli atleti spesso si sentono sotto pressione dagli allenatori e, se giovani, anche dai genitori che
hanno aspettative elevate. Per affrontare l’ansia da prestazione sportiva il primo passo da fare è
una preparazione adeguata. Gli atleti dovrebbero essere ben allenati e sicuri delle loro abilità.
L'allenamento regolare e la pratica aiutano a costruire la fiducia.
Mentalità positiva: insegnare agli atleti a sviluppare una mentalità positiva è fondamentale.
Devono imparare a focalizzarsi sui loro successi piuttosto che sui fallimenti. L'autostima è un
fattore chiave per affrontare l'ansia.
Respirazione e Rilassamento: L'apprendimento delle tecniche di respirazione e rilassamento può
aiutare gli atleti a gestire l'ansia durante le competizioni. Queste pratiche riducono la tensione e
migliorano la concentrazione.
Comunicazione: se parliamo di sportivi giovani, genitori e allenatori devono mantenere una
comunicazione aperta con i giovani atleti. Devono essere sostenitivi e comprensivi invece di
mettere ulteriore pressione su di loro.
Focalizzarsi sul Processo, non sul Risultato: Invece di concentrarsi solo sui risultati, gli atleti
dovrebbero concentrarsi sul processo. Ciò significa mettere l'accento su come giocare bene e fare
del proprio meglio, piuttosto che vincere o perdere.
L'ansia da prestazione sportiva è una sfida comune per gli atleti ma con le giuste strategie è
possibile affrontarla con successo. L'importante è promuovere un ambiente positivo, in cui gli atleti
possano sviluppare le loro abilità e godersi lo sport. L'obiettivo principale dovrebbe essere il loro
benessere fisico e mentale, piuttosto che la vittoria a tutti i costi. In questo modo, si può
contribuire a formare atleti più sicuri e resilienti per il futuro.
Simone Bleve (coach specializzato per sportivi)