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Una delle manifestazioni più comuni dell’ansia patologica: Gli attacchi di panico 

16 Gennaio 2025

Il Disturbo da Attacchi di Panico colpisce prevalentemente l’età giovanile e i più recenti studi epidemiologi ci mettono in evidenza il fatto che ne è interessato il 33% dei giovani di età compresa tra i 18 e i 25 anni, nel senso che un giovane su tre di questa fascia incontra uno dei multiformi aspetti della sintomatologia DAP. 

I sintomi consistono nel ripetersi di stati d’ansia acuti ad insorgenza improvvisa e di breve durata. Gli episodi acuti sono accompagnati da sintomi neurovegetativi e psicosensoriali di frequenza ed intensità variabili per cui si presentano quadri clinici tra loro molto diversificati. É in ogni modo possibile individuare alcuni aspetti fondamentali comuni a tutti gli attacchi di panico: 

  • i sintomi compaiono in maniera improvvisa e drammatica; 
  • la crisi è vissuta con un senso penoso d’impotenza, paura e mancanza di controllo; - la durata della crisi è breve: in genere pochi secondi o minuti; 
  • alla crisi acuta segue un periodo prolungato, anche di molte ore, in cui sono presenti sensazioni di “testa confusa”, marcato stato di spossatezza, sensazioni di sbandamento, vertigini.

Gli attacchi spesso si manifestano “a ciel sereno”, nel senso che, al momento dell’attacco, non è presente una situazione in grado di costituire motivo d’ansia, trattandosi sovente di situazioni routinarie: passeggiando per strada, guidando l’auto, assistendo ad una proiezione cinematografica, facendo acquisti al supermercato. Talora, invece, il primo episodio si manifesta in situazioni drammatiche della vita del paziente, come gravi incidenti o morti improvvise di persone care. Può anche manifestarsi in concomitanza con l’assunzione di sostanze stupefacenti, in particolare marijuana, cocaina, amfetamine. 

Inoltre, nel 50% dei casi, sia la prima crisi sia quelle successive compaiono durante il sonno, determinando un risveglio angosciato. 

I sintomi psichici dell’attacco sono tipicamente rappresentati da paura, terrore, sensazione di morte imminente, timore di perdere il controllo delle proprie idee (impazzire) o delle proprie azioni. A questi si associano sintomi neurovegetativi quali palpitazioni, dolore toracico, dispnea, sensazione di soffocamento, vertigini, vampate di calore, brividi di freddo, tremori e sudorazione profusa. 

In circa un terzo dei casi si manifestano anche fenomeni psicosensoriali quali depersonalizzazione (il soggetto si sente come fuori dal suo corpo e distaccato da esso) e derealizzazione (il soggetto ha la sensazione di non essere reale, né lui né ciò che lo circonda e ha l’impressione che intorno a sé il senso della realtà sia alterato). 

Le manifestazioni comportamentali sono meno comuni e spesso la crisi passa inosservata ai presenti poiché il soggetto cerca di nascondere le sensazioni provate. Talora però il paziente interrompe l’attività in corso e si allontana, cercando di raggiungere in fretta un luogo sicuro. 

È presente fin dalle fasi iniziali della malattia uno stato di paura e di ansietà, l’ansia anticipatoria, consistente nel timore che gli attacchi di panico possano ripetersi. Tale ansia può determinare marcata sofferenza soggettiva e notevole compromissione del funzionamento sociale, lavorativo e affettivo. 

Mentre l’attacco di panico ha insorgenza improvvisa e dura pochi minuti, l’ansia anticipatoria cresce lentamente e può durare anche molte ore. Inoltre è possibile ridurla o controllarla allontanandosi dalla situazione ansiogena o cercando rassicurazioni da una persona di fiducia. L’attacco di panico, invece, quando comincia non può più essere bloccato: si comporta quindi come una reazione del tipo “tutto o nulla” e sfugge ad ogni controllo quando il meccanismo è innescato. 

Nel 20% dei casi si manifesta un’elaborazione ipocondriaca: i pazienti temono o sono convinti di soffrire di una malattia fisica, chiedono ripetutamente l’intervento del medico internista o di altri specialisti e del Pronto Soccorso. Le preoccupazioni ipocondriache riguardano in genere il timore di una grave malattia cardiaca, come l’infarto o la paura di una morte improvvisa per ictus cerebrale. 

Nei 2/3 dei casi si vengono a strutturare le condotte d’evitamento, conseguenti al fatto che i pazienti associano gli attacchi di panico a situazioni o luoghi specifici. Evitando di restare soli, di allontanarsi da casa, di recarsi in luoghi affollati o di usare mezzi pubblici, gli attacchi di panico diventano meno frequenti e più tollerabili. Si parla di agorafobia quando le limitazioni imposte dall’evitamento interferiscono con attività importanti della vita di tutti i giorni. I pazienti agorafobici evitano piazze, luoghi affollati, ponti, tunnel, ascensori, autostrade, treni, autobus e molte altre situazioni nelle quali può risultare difficile fuggire o ricevere aiuto nel caso di una crisi improvvisa. Alcuni diventano completamente incapaci di uscire da soli o possono farlo solo in compagnia di una persona rassicurante nella quale ripongono particolare fiducia. 

Le condotte agorafobiche sono determinate sia dall’evitamento di situazioni specifiche sia dalla ricerca di elementi rassicuranti. I modi più frequenti mediante i quali è ricercata la rassicurazione sono: avere la possibilità di tornare velocemente a casa, essere con una persona di fiducia, sedersi vicino alle uscite, parlare tra sé. 

I pazienti agorafobici possono continuare ad avere attacchi di panico per anni, anche se la loro frequenza di solito si riduce con il progredire delle condotte d’evitamento. Tipicamente l’agorafobia assume un andamento cronico, provoca notevoli limitazioni dell’autonomia personale ed è vissuta come una condizione inabilitante e fastidiosa dalla quale sembra impossibile liberarsi. 

Le possibili evoluzioni del DAP 

Il decorso del DAP è molto variabile. In alcuni casi gli attacchi di panico si presentano in forma sporadica nella giovinezza o nell’adolescenza e scompaiono nell’età adulta, non compromettendo in maniera rilevante l’adattamento sociale. Raramente richiedono l’intervento del medico. 

Nel 30% dei casi assumono un andamento fasico, con periodi di remissione alternati a periodi di riacutizzazione. Negli intervalli il quadro è spesso asintomatico. Nelle fasi di riacutizzazione, invece, sono presenti l’ansia anticipatoria e la ricerca di rassicurazioni. 

L’evoluzione più comune del DAP (70%) è rappresentata dall’instaurarsi di condotte d’evitamento agorafobiche, con lo sviluppo dei tipici comportamenti descritti nel paragrafo precedente. Alcuni pazienti presentano una storia di attacchi di panico sporadici, seguiti da agorafobia grave ed invalidante che si protrae per molti anni, in assenza di crisi acute.

In un terzo dei pazienti si ha la sovrapposizione di una sintomatologia depressiva caratterizzata da umore depresso, disinteresse per le normali attività giornaliere, sentimenti d’inadeguatezza ed inutilità. A differenza dei pazienti con disturbi primari del tono dell’umore, gli agorafobici non presentano disturbi del sonno né della sfera alimentare e sessuale e, all’interno del loro ambiente, mantengono molteplici interessi e conducono attività dalle quali possono trarre piacere e soddisfazione. 

I vissuti soggettivi del DAP 

Focalizzando l’attenzione sul vissuto soggettivo del disturbo, è possibile evidenziare alcuni stati emotivi presenti. 

Vissuto del primo attacco 


Il soggetto è spesso in grado di citare ora, giorno, mese e anno del primo attacco, ricordato con precisione e raccontato in maniera vivida e con ricchezza di particolari. Il vissuto ad esso associato è descritto come il passaggio ad un’altra dimensione e le frasi che sottolineano tale situazione sono del tipo: “Da quel momento la mia vita è cambiata”, “Dopo quella crisi non sono più stato lo stesso”. Il vissuto è quindi di un radicale cambiamento della propria esistenza, che ora presenta limiti imposti dalle condotte d’evitamento, peraltro intese come necessarie per contrastare il timore/terrore che gli attacchi possano ripresentarsi. E’ spesso radicata l’associazione tra il primo attacco e la situazione in cui esso si è manifestato: se, ad esempio, si è verificato in un locale pubblico, il soggetto ne evita accuratamente la frequentazione; se è avvenuto durante la guida, evita di guidare; se è avvenuto a seguito dell’assunzione di sostanze stupefacenti, teme che esse abbia- no determinato un danno irreparabile alle strutture cerebrali e attribuisce loro il ripetersi delle crisi anche dopo la loro completa sospensione. 

Vissuto di incomprensibilità 

Nonostante i tentativi di comprensione, prevale l’impossibilità di dare alle crisi una spiegazione causale valida e plausibile. Ciò determina un vissuto d’incomprensibilità e

le crisi appaiono inspiegabili, con conseguente vissuto di disorientamento. La maggior parte dei soggetti ha alle spalle una storia di numerosi accertamenti medici con esito negativo, oltre che di svariate diagnosi formulate per i loro disturbi dai molti medici cui si sono rivolti. Gli specialisti più frequentemente consultati sono i cardiologi, per i timori della presenza di un disturbo cardiaco, gli otorinolaringoiatri, per la presenza dei sintomi vertiginosi e i gastroenterologi, per la frequente presenza di problemi colitici. A causa dei fallimenti terapeutici dei vari consulti specialistici si rinforza nei pazienti un sentimento di sfiducia nella possibilità di guarigione. 

Vissuto di vergogna 

Il vissuto di vergogna è strettamente legato alla paura di perdere il controllo delle proprie idee (cioè di impazzire) e delle proprie azioni (di compiere cioè gesti di tipo autolesivo o lesivo nei confronti di altri). Da ciò deriva il timore di essere considerati “anormali” o “matti”. 

Vissuto di rabbia/rassegnazione 

In alcuni soggetti prevale la rabbia per un disturbo che manifesta la sua presenza attraverso i sintomi, ma che appare inafferrabile dal punto di vista diagnostico e da quello terapeutico. 

In altri prevalgono vissuti di rassegnazione attraverso l’adattamento ad uno stile di vita condizionato dalle condotte d’evitamento e quindi nettamente inferiore alle potenzialità soggettive. Nella maggior parte dei casi rimane attivo un atteggiamento di ricerca finalizzato a dare un nome al disturbo e a trovare un modo per curarlo. Frequente è la ricerca di testi specifici sull’argomento del DAP. 

L’atteggiamento di parenti, amici e conoscenti 

L’atteggiamento dei familiari è inizialmente di comprensione e compartecipazione allo stato di sofferenza. Con il passare dei mesi e con il susseguirsi degli esami diagnostici negativi e degli inutili consulti specialistici, anche i familiari vengono però presi da un

senso di sconforto e sfiducia. In alcuni casi diventano aggressivi ed assumono un atteggiamento colpevolizzante. 

Di solito è l’ambito familiare quello in cui avviene primariamente la ricerca di supporto e solo raramente i pazienti ne parlano con amici o compagni di studio o di lavoro. Alla base di ciò è la presenza del vissuto di vergogna di cui si è parlato in precedenza, assieme alla convinzione che il disturbo di cui soffrono, già misterioso per loro stessi e per i vari medici consultati, non possa essere compreso dagli altri. Si viene così a determinare la convinzione che il parlarne non sarebbe d’alcun aiuto e servirebbe solo ad essere etichettati come “matti”.

Le ipotesi interpretative delle cause 

Una delle caratteristiche degli Attacchi di Panico è la loro apparente inderivabilità, nel senso che non è possibile individuare una spiegazione comprensibile della loro origine.  Di fatto la via della logica e della razionalità si mostra poco percorribile per la comprensione delle crisi ed è invece necessario seguire la via psicologica. 

Un conflitto o un nodo problematico collocato nell’inconscio, escluso quindi dalla coscienza, esprime la sua presenza dando origine a sintomi, che sono l’espressione del fatto che la persona è portatrice di un disagio psicologico e di uno stato di malessere. E’ in questa prospettiva che va collocata la lettura dell’origine degli Attacchi di Panico che vanno interpretati come l’espressione di uno stato di malessere psicologico, di cui il soggetto non è consapevole e che si manifesta attraverso i sintomi. 

Il DAP e il disagio giovanile 

Gli Attacchi di Panico interessano, come già evidenziato, il 33% della popolazione tra i 18 e i 25 anni e ciò ne sottolinea la rilevanza sociale. Essi s’inseriscono nel contesto del disagio giovanile in quanto sintomi-segnali dello stato di disorientamento dei giovani e di vuoto lasciato dalla crisi dei valori. 

Solitudine, incomunicabilità, situazioni familiari critiche, difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro possono esprimersi con il ricorso ad alcolici o stupefacenti, con atteggiamenti violenti ed aggressivi, ma anche attraverso gli Attacchi di Panico che diventano allora l’espressione psichica del malessere e del disagio. 

È importante non fermarsi ai farmaci che, per quanto efficaci nella cura dei sintomi, sono invece inefficaci sul disagio psichico da cui originano. Chi soffre

d’Attacchi di Panico è portatore di un malessere psichico e diventa fondamentale decodificare, attraverso un lavoro psicologico, il senso del disturbo, coglierne il significato, attivando un percorso che consenta non solo di debellare i sintomi, ma anche di rimettere in moto il processo di crescita personale. 

Dott.ssa Cristiana Sardelliti (psicologa)

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